venerdì 19 agosto 2011

Il discorso del re


Il discorso del re (2010)
Titolo originale: The King’s Speech
Regia: Tom Hooper
Con: Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter
4 Premi Oscar 2011 (Miglior film, Miglior regia – Tom Hooper, Migliore attore protagonista – Colin Firth, Migliore sceneggiatura originale – David Seidler), 1 Golden Globe 2011 (Miglior attore in film drammatico – Colin Firth)
Voto: 9,5




C’era una volta un re, dicevano le favole. Solo che nelle favole la vita dei re era una pacchia, giusto qualche drago da scannare in gioventù (ai tempi in cui essi erano ancora principi azzurri), poi una principessa mozzafiato da sposare, ed un castello da sogno nel quale vivere felici e contenti. La vita però non è così facile, neanche per i re (per quanto ci siano mestieri peggiori), o comunque non lo fu per re Giorgio VI d’Inghilterra, che salì quasi controvoglia al trono per l’abdicazione di un fratello un po’ troppo farfallone per l’epoca, si trovò a regnare durante uno dei momenti storici più drammatici per il Regno, ossia la Seconda Guerra Mondiale, e si spense pochi anni dopo, nel 1952, a soli 57 anni, stroncato da un tumore (questo finale nel film però non c’è, anche se sono presenti le molte sigarette che di certo non giovarono alla salute del sovrano). E che oltretutto aveva un problema particolarmente imbarazzante, soprattutto per un re, a maggior ragione per un re che, regnando in tempo di guerra, doveva rassicurare i propri sudditi parlando loro alla radio: re Giorgio VI era balbuziente.

Non un re da favola, quindi, questo Giorgio VI, né un film favolistico, di conseguenza, questo ottimo Il discorso del re che pure, al netto delle drammaticità che una storia così intensa non può non avere, non è esente da un vago incanto a suo modo fiabesco, che rende la storia per così dire dolce e particolarmente apprezzabile dal grande pubblico.

L’espediente al quale il film deve gran parte della sua riuscita è a mio parere proprio la scelta di focalizzazione narrativa: Giorgio VI, che pure è tanto al centro del racconto che il film si può anche definire biografico oltre che storico, non è inquadrato per le sue res gestae e non ne viene esposta la vita tout-court; no, al contrario, la pellicola si concentra in particolar modo su un aspetto specifico del personaggio storico, vale a dire proprio la sua balbuzie. Deuteragonista a pieno titolo della storia diventa allora colui che “curò” il re dai suoi difetti di dizione, ovvero un particolarissimo logopedista australiano che – forte dell’intuizione che la balbuzie è anzitutto un problema psicologico – non solo riuscì a liberare quasi del tutto dal balbettio re Giorgio VI, ma che oltretutto ne divenne un profondo amico.

Potremmo quindi addirittura inquadrare come “manzoniano” l’approccio storiografico del lavoro di Tom Hooper, un film in cui la Storia con la s maiuscola incontra la storia con la s minuscola, ed i potenti incontrano gli umili fino a diventarne inseparabili – la balbuzie come “provvida sventura”? Non sarà niente di particolarmente originale, è vero, ma raccontare la storia partendo non dai suoi avvenimenti epocali ma da piccoli episodi poco noti è sempre un modo molto poetico di fare narrazione (scritta o per immagini che sia) ed è un modo, se il prodotto è qualitativamente ben fatto, riesce a raccogliere consensi. E Il discorso del re è qualitativamente ben fatto: anche se tecnicamente è ineccepibile (fotografia e montaggio meritano una menzione), a saltare subito all’occhio è la magistrale interpretazione dei protagonisti. Colin Firth ha pure vinto l’Oscar (uno dei quattro assegnati al film), Geoffrey Rush no, ma a mio parere lo meritava tanto quanto il collega, considerato lo stato di grazia con cui recita durante l’intero film. A proposito di Oscar, chiudo ricordando che Il discorso del re ne ha ricevuti quattro, oltre ad innumerevoli riconoscimenti “minori” (se così si possono chiamare): la gloria che hanno ricevuto il film e coloro che vi hanno lavorato è a mio avviso meritata.

 Colin Firth in una scena del film

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