venerdì 27 gennaio 2012

Francesco de Gregori - Titanic

Francesco De Gregori, Titanic (1982)
Tracklist: 1. Belli capelli – 2. Caterina – 3. La leva calcistica della classe ’68 – L’abbigliamento di un fuochista – 5. Titanic – 6. I muscoli del Capitano – 7. Centocinquanta stelle – 8. Rollo & his Jets – 9. San Lorenzo
Voto: 9




Come gli ultimi drammatici eventi di attualità ci hanno ricordato, niente è più metaforico di un grande e lussuoso transatlantico che cola a picco come una qualsiasi bagnarola. Metaforico di una società che va a fondo, di un’umanità incapace di condurre serenamente in porto il proprio destino. In questi giorni gli occhi di tutti sono tristemente puntati sul relitto della Costa Concordia malinconicamente incagliato nel mare del Giglio, ma il naufragio più disastroso e famoso della storia fu sicuramente quello del Titanic. Ispirato dalla lettura di L’affondamento del Titanic di Enzesberger, si occupò della vicenda, in questo magnifico concept-album del 1982, il bravissimo Francesco De Gregori.

Tecnicamente, parlare di Titanic come di un concept può essere improprio: le canzoni dedicate al transatlantico affondato nel 1912 in realtà sono solo le tre centrali del disco. Le altre divergono dall’argomento – anche se magari qualche relazione c’è comunque, ma ora non c’è tempo per parlarne – e, quantunque tra esse ve ne siano di molto belle (una su tutte, celeberrima, La leva calcistica della classe ’68, quella di “Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore”), in questa sede non ce ne occuperemo, dedicandoci soltanto alle canzoni sul Titanic.

La narrazione degregoriana della vicenda del Titanic inizia da Southampton, porto da cui partì la navigazione del transatlantico verso New York. Con L’abbigliamento di un fuochista siamo in pieno clima folk – ad accompagnare De Gregori c’è la voce di Giovanna Marini, artista molto attenta alla musica popolare – e si racconta il doloroso distacco di una madre dal figlio che parte per lavorare in America. Il Titanic non è citato, è solo alluso dall’amaro verso “questa nera nera nave che mi dicono che non può affondare”, e tutto sommato la vicenda potrebbe riferirsi a qualsiasi emigrante costretto dalla miseria ad abbondare la propria famiglia per tentare la sorte lontano da casa. È un’ottica molto particolare per iniziare a parlare del Titanic, ma è figlia di una grande intuizione di De Gregori: se il Titanic rappresenta la tragedia non solo di una nave cha affonda, ma bensì di un’intera umanità che corre verso il disastro, allora questa tragedia è anzitutto sociale. Sono le fratture sociali, conseguenza diretta di un tessuto umano cui è sconosciuto il criterio dell’uguaglianza, a destabilizzare il mondo. Significativo è allora che il ragazzo sia un fuochista, insomma un addetto alle macchine, uno cioè che col proprio faticosissimo lavoro fa sì che la nave vada avanti: il benessere dei ricchi si nutre come parassita della fatica degli umili. Dalla nave che parte addobbata a festa la sciagura è ancora lontana, ma per la madre che piange il figlio che se ne va il disastro è già avvenuto, il figlio è come già morto, inghiottito da un orizzonte dal quale comunque non tornerà (magnifico il senso di lacrimoso estraniamento della donna che dice al figlio “Avrai dei figli con una donna strana e che non parlano l’italiano”: nemmeno la lingua, per l’appunto la lingua madre, resterà al figlio che se ne va). Il figlio mostra nelle proprie parole dalla grammatica incerta un po’ più di ottimismo nei confronti del viaggio, e di quella destinazione – l’America! – in cui cerca fortuna, ma il tono lacerante dell’intero brano getta comunque un’ombra scura sulla partenza di questo portentoso mostro dei mari.

Sul Titanic, però, si balla e ci si diverte. Titanic, una delle canzoni più celebrate di De Gregori, è infatti una canzone dal ritmo trascinante e per certi versi divertente, raccontando i primi giorni di navigazione, all’insegna dell’euforia e della gioia. La frattura sociale è comunque evidente sin dal fulminante attacco – “La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento” – nonché dal felice alternarsi nell’intero brano di tre tonalità diverse. I ragazzi di terza classe vanno in America “per non morire”, le ragazze di prima ci vanno “per sposarsi” ma, “tra l’amore che tira e un padre che predica”, prende bene un po’ a tutti. La superficialità della classe altolocata viene presa alla berlina tramite il personaggio della “ragazza di prima classe innamorata del proprio cappello”, simbolo impietoso della vacuità degli status symbol e di chi ad essi si aggrappa. Al tema della frattura sociale, se ne associa adesso un altro, centrale nella lettura degregoriana del naufragio del Titanic: il falso mito del progresso. Al suono irresistibile di “questi nuovi ritmi americani” (si noti l’aggettivo “nuovi”), la marea umano che viaggia sul Titanic è entusiasta di poter viaggiare su una dimostrazione lampante dell’evoluzione tecnologica dell’uomo, di poter prendere parte a quel che è di fatto un viaggio nel futuro (“il futuro è una palla di cannone accesa e noi lo stiamo quasi raggiungendo”, si dice nella canzone successiva), in un futuro in cui le conoscenze acquisite consentiranno all’umanità di vivere in sicurezza e ricchezza (emblematico il riferimento al “marconista” dalle “lunghe dita celesti nell’aria”, che comunica come se niente fosse “con Vienna e Chicago”). È un’umanità che si fida, si fida ciecamente, del progresso di cui sta prendendo parte. E l’insegnamento del Titanic è proprio questo: il progresso è inutile, anzi è addirittura dannoso, se non vi si affianca un’evoluzione di pensiero in grado di gestire le nuove tecnologie. Non c’è progresso alcuno se non siamo in grado di essere all’altezza delle macchine che costruiamo. E non esiste nessuna macchina, neanche la “più perfetta”, che non abbia bisogno di una gestione oculata. Anche la migliore invenzione del mondo può risultare nociva se messa in mano a un cretino – e questo è oggi particolarmente valido, non trovate?

Le istanze dello scontro sociale e del falso mito di progresso emerse nelle due precedenti canzoni si sommano e si sublimano nell’atto conclusivo di questa narrazione: I muscoli del capitano. “La nave è fulmine, torpedine, miccia, scintillante bellezza, fosforo e fantasia, molecole d'acciaio, pistone, rabbia, guerra, lampo e poesia”, racconta la parte centrale del brano, in un impeto volutamente futurista, a citare il movimento poetico, in voga proprio negli anni del Titanic, che proprio nella fiducia nel progresso aveva il suo fulcro: a smentire il mito ci penserà l’iceberg (il ghiaccio nella canzone precedente era citato non a caso tre volte, qua no, c’è solo “in mezzo al mare una donna bianca, così enorme alla luce delle stelle”). E ci penserà anche la figura centrale della canzone, il capitano (fugacemente apparso anche nel brano precedente): egli ci appare come una sorta di “imago Christi”, inaffondabile e onnipotente (“Guarda i muscoli del capitano, tutti di plastica e di metano”). Qua la frattura sociale è lampante e scoperta: il mozzo (a suo modo “parente” del fuochista), pur nella sua ammirazione reverenziale verso il capitano (“non te lo volevo dire”), scruta un pericolo nell’aria e glielo comunica. Ma il capitano ha una risposta perentoria a tutto, e la sua è particolarmente agghiacciante: “Io non vedo niente – andiamo avanti tranquillamente” (la rima niente/tranquillamente è particolarmente densa di significato). E si sa come va a finire: con gli umili che portano avanti la baracca (il fuochista) e si accorgono del pericolo (il mozzo), mentre i ricchi corteggiano cappelli (la ragazza di prima classe) e si schiantano contro gli iceberg (il capitano), il cerchio delineato da De Gregori si chiude.

Metafora tremenda, il Titanic, ma significativa. Era il 1912, il lussuoso transatlantico era figlio dei propri tempi, di quella
belle époque che, insieme alle nuove conquiste tecnologiche, prometteva grandi cose per il futuro. Passarono due anni (non venti, né dieci, ma solo due) e la prima guerra mondiale, devastante proprio come l’iceberg dell’Atlantico, si portò via tutti i sogni di grandeur (tra l’altro, proprio i futuristi erano – ma prima che essa avvenisse, non dopo! – grandi celebratori della guerra, che Marinetti definiva “sola igiene del mondo”). Il 1912 è anche l’anno di prima uscita di Morte a Venezia di Thomas Mann che, tra l’altro, racconta anche la stessa cosa: al Lido ce la spassiamo e non ci accorgiamo che a Venezia fa strage il colera. Mann si era accorto di qualcosa, forse perché gli artisti hanno un particolare sesto senso. Era il 1912. Son passati cent’anni esatti: non serve dire altro.




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