venerdì 30 marzo 2012

Antonio Tabucchi - Piazza d'Italia


Antonio Tabucchi, Piazza d’Italia, Feltrinelli, Milano, 1996, pagg. 150
Anno di prima pubblicazione: 1975
Voto: 9



                
Tabucchi ci ha lasciati domenica scorsa, ed è stata una notizia molto triste, perché perdiamo non solo uno scrittore sopraffino, uno dei pochi artisti italiani di respiro veramente internazionale, ma anche un intellettuale nel senso nobile del termine, un pensatore libero, schivo alle luci della ribalta ma mai indeciso nel dire la sua, sempre pronto a manifestare la propria opinione senza la paura di urtare i potenti. In effetti, non solo la narrativa ma anche il ricco repertorio di articoli di Tabucchi meriterebbero analisi approfondite. Nello spazio ridotto di questo blog, preferisco però omaggiare questo grande artista recensendo non il suo libro migliore (io resto innamorato di Sostiene Pereira) ma uno dei suoi libri più importanti, se non altro perché fu il primo, Piazza d’Italia, dato alle stampe la prima volta nel 1975.

Accennavo al fatto che non è questo il libro di Tabucchi che preferisco. In effetti, mi pare un’opera “giovanile” in cui, anche se non mancano i barlumi della futura grandezza, manca un po’ di quella maturità che avrebbe reso possibili i successivi capolavori (già Notturno indiano, del 1984, è di livello decisamente più alto). In particolar modo, quella che sarà in seguito una delle armi segrete del Tabucchi maturo, ossia la capacità di fondere mirabilmente due elementi di per sé antitetici come un lucido razionalismo e una visionarietà onirico, appare ancora un po’ in rodaggio, e in questo romanzo la fusione a freddo dei due elementi riesce e non riesce, suonando talvolta come un’indecisione irrisolta tra le due istanze. Inoltre, la frammentarietà della storia, che pure non sarà assente dal Tabucchi più adulto e darà luogo ad ottimi risultati, qua suona un po’ troppo marcata, con qualche problema di interconnessione tra i vari capitoli. In generale, si respira in qualche pagina un clima alla Cent’anni di solitudine che – come spesso accade nei romanzi in cui si respira il clima alla Cent’anni di solitudine, ma questa è essenzialmente colpa di Gabriel García Márquez, “reo” di avere scritto un capolavoro inarrivabile – non eguaglia il livello del modello.

Detto questo, va anche aggiunto che questo primo Tabucchi, seppur minore rispetto al Tabucchi dei capolavori, è tutt’altro che da buttare, anzi il contrario. Siamo in un borgo toscano tra le paludi e il mare (è solo un caso che Vecchiano, il paese in cui Tabucchi è cresciuto, sia un borgo toscano tra le paludi e il mare?) e attraverso la storia di una famiglia seguiamo la storia d’Italia da Garibaldi al secondo dopoguerra. Nella statua della piazza centrale del paese, Garibaldi dona l’Italia prima al Re, poi a Mussolini, poi alla Democrazia. Eppure, sarà proprio di fronte alla democrazia che si consumerà l’ingiustizia finale del romanzo. Perché la storia scorre, i tempi passano, ma non cambia nulla, gli umili restano umili, i potenti restano potenti. Dicevamo che questo primo Tabucchi ha già in sé le caratteristiche del Tabucchi posteriore, e tra queste non manca certo l’impegno, la letteratura anche come messaggio civile. Piazza d’Italia anzi si colloca a pieno titolo in un filone certo non secondario della nostra letteratura, da Manzoni alla Morante passando per Tomasi di Lampedusa. Niente di nuovo, si dirà, ma questi temi, se declinati abilmente, non sono mai banali. E Tabucchi è abile a declinarli in modo non banale, nel suo già caratteristico stile che gli diventerà consueto, una scrittura asciutta ma con guizzi (anche dialettali), un racconto geometrico e a tratti ellittico ma tutt’altro che estraneo a lampi di fantasia e a momenti di discreta ironia. “L’uguaglianza non si ottiene con le macchine idrauliche”, è il vero messaggio del racconto, e detto così sembra uno scherzo. Leggendo il libro, si capisce invece la profondità di un messaggio che non è luddista, bensì centrato a riflettere sul fatto che l’evoluzione della specie umana non si realizza mai veramente se non ottiene l’uguaglianza dei cittadini, che dovrebbe esserne invece il vero scopo. Questa è la vera crescita dell’uomo. L’Italia è passata dal Re alla Repubblica, dai carri a cavalli ai motori a scoppio ma – ammonisce Tabucchi – passi concreti verso l’uguaglianza non ne sono stati mai veramente fatti. E finché non se ne faranno, sarà sempre come non aver mai iniziato nessuna crescita.

Non c’è altro da dire: come romanzo d’esordio, davvero niente male. L’ho già detto: Tabucchi avrebbe saputo anche fare meglio di questo suo primo lavoro. Ma questo Piazza d’Italia bastava già per capire la grandezza di quello che sarebbe diventato uno dei più importanti scrittori italiani contemporanei.

Garibaldo salì sul podio con la fisarmonica. Dapprincipio aveva il batticuore, ma poi si sciolse, ritrovò se stesso e eseguì il repertorio con maestria. Chiuse con la canzone che aveva preparato, una ballata in terzine di rime assonate, di stile dantesco, in cui parlava di un inferno fatto con la benzina. Fu un successo senza precedenti e molti piansero, andarono ad abbracciarlo. La voce dell’altoparlante, quando le cose stavano per mettersi al brutto, cercò di sdrammatizzare: “Questi tenebrosi momenti sono per fortuna passati. Ma essi devono essere sempre presenti nella nostra memoria perché non ci dimentichiamo mai cos’è stato il fascismo!” E si passò alla seconda parte della manifestazione: la corsa nei sacchi.
(pag. 133)

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