venerdì 20 luglio 2012

Il favoloso mondo di Amelie


Il favoloso mondo di Amelie (2000)
Titolo originale: Le fabuleux destin d'Amélie Poulain
Regia: Jean-Pierre Jeunet
Con: Audrey Tatou, Mathieu Kassovitz
Voto: 7,5




Se ci fosse un concorso per il film più lezioso del secolo, Il favoloso mondo di Amelie avrebbe i titoli per proporsi in una candidatura assai credibile: si tratta infatti di una delle pellicole a più alto contenuto glicemico mai realizzate! E non è solo un problema di zuccheri, ma anche di sugo: stringi stringi, a livello concettuale, si tratta di un film abbastanza vacuo, di una vacuità che risulta tanto più fastidiosa quanto più salta all’occhio che la sceneggiatura, furbetta e ammiccante, proverebbe al contrario a porsi come quasi “filosofica”, o comunque ricca di massime e morali che in qualche modo dovrebbero indurre lo spettatore a riflettere su se stesso, sull’alienazione della vita contemporanea che soffoca i sentimenti, e lasciarsi andare all’amore più spassionato e viscerale. Ok, il messaggio c’è tutto, non è niente di nuovo, da Marcuse in giù, ma è condivisibile. È un peccato allora che non ci sia niente di “filosofico” in un film che rifila per lo più ovvietà su ovvietà, espresse con una profondità che rende le massime dei Baci Perugina roba da epistemologi kantiani.

Se questa mia recensione finisse qui, si tratterebbe di una chiara stroncatura. In verità non è così. Al netto di quanto appena espresso, cioè della scarsa profondità concettuale di un film piuttosto terra-terra, Il favoloso mondo di Amelie funziona alla grande. Se il contenuto è molto fiacco, la pellicola di Jean-Pierre Jeunet si riscatta senz’altro grazie alla forma, al confezionamento di un prodotto realizzato con eccelsa maestria. Merita una menzione anzitutto la fotografia, che tinge di un incantato color pastello tutte le scene di un film il cui soggetto, che pare anch’esso scritto col pastello e dotato di piacevoli svolazzi e fronzoli (come la simpatica vicenda del “fantasma delle stazioni”), altro non è che una favola, una favola sognante. Ecco, forse “sognante” è la parola giusta per definire questo film, che piace, anzi ha successo (e ne ha avuto molto), per una dote tutto sommato non diffusissima e sicuramente commendevole, cioè quella di emozionare. Sì, questo è un film che emoziona. Certo, in confronto alla Parigi di Amelie, pure la Roma di Woody Allen tanto accusata di essere “da cartolina” ha l’autorevolezza della Treccani (ma ho già sostenuto parlando di To Rome With Love che non credo che questo sia un problema): più che girato sulla Terra, Il favoloso mondo di Amelie sembra provenire da un altro pianeta, un pianeta di zucchero filato dove i buoni hanno sempre la meglio, i cattivi subiscono scherzi dispettosissimi dai buoni (scherzi mai troppo cattivi, altrimenti i buoni che buoni sarebbero?) e alla fine si dànno una calmata, tutti si vogliono bene, ogni cosa è o va al suo posto, e l’amore trionfa su tutto. Niente di particolarmente credibile, ok, ma chi non vorrebbe vivere in un pianeta così?

Chi cerca verità filosofiche, almeno che non si accontenti di sapere che è meglio consacrasi agli altri piuttosto che a un nano da giardino (ma va’!) e altre amenità simili, fa bene a tenersi alla larga da questa favola candita: grandi rivelazioni ontologiche non ce ne sono. Chi invece cerca un film dolce e consolatorio, in cui la protagonista – una quasi esordiente Audrey Tatou – sembra nata per interpretare il suo personaggio e la colonna sonora sgocciola melodie soavi a contrappuntare con incanto ogni scena, un film insomma da guardare col piacere che si ha nel concedersi un cioccolatino che si scioglie lentamente in bocca (molto lentamente, forse troppo, visto che il film dura sulle due ore), avrà letteralmente pane per i propri denti. Non sarà un grande film, ma nel suo genere è un caposaldo.

Audrey Tatou in una scena del film

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