venerdì 11 gennaio 2013

Fabrizio De André - Anime salve


Fabrizio De André, Anime salve (1996)
Tracklist: 1. Prinçesa – 2. Khorakanè – 3. Anime salve – 4. Dolcenera – 5. Le acciughe fanno il pallone – 6. Disamistade – 7. Â cúmba – 8. Ho visto Nina volare – 9. Smisurata preghiera
Voto: 10




Dell’indimenticato Fabrizio De André abbiamo già parlato (anche di recente) in questo blog, ma di De André non si parla mai abbastanza, e proprio oggi che ricorre l’anniversario dalla morte (avvenuta l’11 gennaio 1999) non potevamo perdere l’occasione per ricordarlo ancora una volta. Lo facciamo riprendendo in mano l’ultimo album di “Faber”, un disco non altrimenti definibile che come capolavoro, Anime salve, pubblicato nel 1996 e frutto della decisiva collaborazione con un altro grosso calibro della musica italiana come Ivano Fossati, i cui benefici apportati alla musica di De André sono di sicuro non trascurabili. Non è comunque, ovviamente, solo merito di Fossati se Anime salve è un disco che rasenta – o raggiunge? – la perfezione, né soltanto dell’indiscutibile qualità di tutti i collaboratori chiamati da De André a lavorare all’album, dall’impeccabile produttore Piero Milesi fino a tutti i grandissimi musicisti impegnati nelle registrazioni (collaboratori di vecchia data cui si aggiungono turnisti di acclarata fama): c’è anche tanto merito dello stesso Fabrizio De André. È come se il cammino poetico di una vita, un cammino già di per sé straordinario, fosse sublimato in un disco che ha saputo riprendere i temi portanti dell’intera carriera deandreiana, dal punto di vista musicale ma anche e soprattutto da quello contenutistico, per dar loro una forma che, pur instaurandosi in continuità con quanto fatto fino ad allora, risulta nuova ed ancora più raffinata, evoluta. Musicalmente, la passione per la musica etnica, in particolar modo per quella mediterranea, che in De André aveva conquistato una prepotente ribalta dal 1984 con Crêuza de mä (ma già qualcosa aveva fatto capolino nell’album noto comunemente come L’indiano) si fonde con l’attenzione per sonorità di stampo diverso che aveva già fatto capolino in Le nuvole – che si era addentrato anche nell’esplorazione di melodie mitteleuropee, mentre Anime salve ammicca decisamente più che altro a sonorità latinoamericane – nonché con sporadiche orchestrazioni di stampo classico che richiamano gli arrangiamenti degli esordi. Ma è dal punto di vista dei contenuti che Anime salve tocca vette di splendore che portano ad ideale compimento la poetica dell’intera carriera di De André.

Anime salve è infatti una cosmogonia dell’umanità reietta ed indifesa, un canto corale degli emarginati e degli oppressi, della maggioranza che le condizioni di vita subalterne rendono minoranza, degli ultimi che non saranno mai primi. Le Anime salve di questo disco, e della stessa title-track che è anche uno dei due duetti con Ivano Fossati (che scrive con Fabrizio l’intero album ma presta la sua voce solo qua e in  cúmba), sono più che altro anime da salvare, o anime che saranno salve solo in una indefinita dimensione in un altro spazio e in un altro tempo rispetto ai nostri (“Mille anni al mondo, mille ancora / che bell’inganno sei anima mia” è lo scioccante incipit del brano), e De André ne canta e difende le sorti senza paternalismo alcuno, senza abbandonarsi a moralismi che non gli sono mai appartenuti né interessati, senza alcun interesse politically correct di indorare la pillola. La matrice è al contrario la stessa sensibilità dalla parte degli umili che ha animato gli esordi di De André – da La ballata del Miché a Bocca di Rosa passando per La canzone di Marinella – e che di fatto ne ha innervato l’intera produzione poetico-musicale (si pensi ad un album dirompente come Tutti morimmo a stento): essa è presente in Anime salve sin dal pirotecnico avvio, un brano diretto e di sconcertante bellezza, che senza giri di parole racconta la vita di un viado brasiliano, quella Prinçesa che si fa forte anche di un arrangiamento “brasilianeggiante” veramente strepitoso. Subito dopo, in seconda traccia (anche se, curiosamente, l’ordine dei brani nell’edizione su vinile, e pure su musicassetta, è diverso rispetto a quello del cd), arriva Khorakanè, dal sottotitolo che vale più di mille spiegazioni, A forza di essere vento. Con la stessa sensibilità di cui sopra, protagonisti di questo brano, dopo gli omosessuali in quanto tali emarginati, sono i rom, un’altra minoranza discriminata in quanto tale. «Io non sono razzista però gli zingari proprio non li sopporto», si sente talvolta dire da persone sedicenti progressiste ma che invece cullano in sé la più viscida e infida delle xenofobie: la nobiltà d’animo di De André in quanto poeta sta proprio nel non avere niente da spartire con queste ipocrisie, nel rifuggire dalle posizioni di comodo, dalle canzoni per questa o per quella minoranza ammantate di buonismo utile per strappare qualche titolo di giornale o guadagnarsi qualche intervista con una “provocazione” furbetta; la grandezza di De André sta viceversa nella sincera adesione alle istanze di cui si fa portatore, ad un autentico amore per gli emarginati che non è una vera e propria scelta quanto un obbligo autoimpostogli dall’amore che prova per queste persone. “Ora andiamo spose bambine ché è venuto il tempo di andare [...] anche oggi si va a caritare / e se questo vuol dire rubare [...] lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”: non serve aggiungere altro.

Queste anime salve sono quindi più che altro anime sole, sole e senza protezione, siano esse alle prese con un’alluvione che le tiene distanti da un amore non corrisposto (Dolcenera) o impegnate nella più terribile della faide (Disamistade). Stiamo parlando di un album veramente straordinario, che ci accompagna in una galassia di umanità disperata ma orgogliosa, tra momenti di eterea melanconia (Ho visto Nina volare) ed esplosioni di sonorità solari e quasi tribali (Le acciughe fanno il pallone). Nove tracce, nove capolavori, con un culmine se possibile ancora più prominente, l’acme al quale convoglia e detona tutto il disco, la canzone finale, Smisurata preghiera. È l’ultima canzone che ci ha lasciato De André, una sorta di testamento: non è stata una cosa voluta, perché De André è morto purtroppo giovane e aveva il progetto di regalarci altre canzoni che purtroppo la morte gli ha impedito di realizzare, ma Smisurata preghiera si presta veramente bene a rappresentare il lascito straordinario di un canzoniere irripetibile. Smisurata preghiera è un’invocazione a una non meglio definita entità sovrannaturale, o comunque in qualche modo “sovra-potente”, affinché finalmente, almeno una volta, butti un occhio sulle minoranze che soffrono – gli umili e gli straccioni, come erano detti in Via della croce, nell’album La buona novella – e si prenda cura di loro, trovando per costoro un destino diverso da quello che è loro irrimediabilmente riservato. Sorretta da un arrangiamento potente e tambureggiante che sfocia in un crepuscolare finale d’orchestra, che sfuma in un’aria nebbiosa e incerta, questa Smisurata preghiera è il miglior finale all’album – e forse alla carriera – che si potesse trovare. Le parole finali meritano di essere riportate così come sono, senza altri commenti: “Ricorda signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco / non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere”.


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