venerdì 25 gennaio 2013

Django Unchained


Django Unchained (2012)
Titolo originale: Django Unchained
Regia: Quentin Tarantino
Con: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson
2 Premi Oscar 2014 (Migliore attore non protagonista – Cristoph Waltz; Migliore sceneggiatura originale)
Voto: 9,5




Guardando Django Unchained mi è tornato in mente quel passo di Cent’anni di solitudine in cui García Márquez racconta dei problemi che ci furono a Macondo quando arrivò il primo cinematografo, allorché la gente del villaggio “si indignò per le figure viventi che il prospero commerciante don Bruno Crespi proiettava nel teatro dai botteghini a fauci di leone, perché un personaggio morto e sepolto in una pellicola, e per la malasorte del quale si erano sparse lacrime di afflizione, riappariva vivo e trasformato in arabo nella pellicola successiva. Il pubblico, che pagava due centavos per compatire le vicissitudini dei personaggi, non poteva sopportare quella burla inaudita, e fece a pezzi tutta la panchetteria. L’alcade, su istanza di don Bruno Crespi, spiegò, mediante un bando, che il cinema era soltanto una macchina d’illusioni e perciò non meritava le intemperanze passionali del pubblico” (pag. 788 dell’edizione Meridiani Mondadori del romanzo).

Che il cinema sia “soltanto una macchina d’illusioni” a noi ormai è cosa ben nota, altrimenti neanche noi, come gli abitanti di Macondo, saremmo in grado di resistere alla visione delle pellicole più strazianti o violente, pensiamo ad esempio a quelle horror-splatter, le quali ci costringerebbero a lasciare la sala in preda a conati di vomito mentre invece talvolta riescono pure a divertirci. D’altro canto, è anche vero che la magia del cinema (non consideriamo i documentari) sta anche nella capacità non dico di abolire ma sicuramente di ridurre la distanza che separa lo spettatore reale dall’illusoria vicenda proiettata, tanto che in un certo senso chi assiste sa ma dentro di sé finge di dimenticare che sta seguendo una storia inventata (se non inventata, rappresentata): in tal modo, egli riesce ad appassionarsi al film, magari a commuoversi, a partecipare insomma emotivamente alle splendide illusioni che gli vengono proposte. A tenere i fili di questo macchinismo incantato sono poi i registi, e sta alle loro capacità impostare la giusta “distanza” tra storia e spettatore per dare la giusta efficacia al lavoro da loro confezionato.

Questa premessa mi serve per dire che, a mio parere, una delle grandissime capacità di Tarantino, in particolar modo (ma non solo) del Tarantino di Django Unchained, sia proprio l’abilità straordinaria nel calibrare alla perfezione la giusta “distanza” tra storia e spettatore. In linea di massima, in Django, lo spettatore è tenuto per così dire “lontano”, gli viene cioè spesso suggerito che la storia narrata è solo, almeno dal punto di vista strettamente tecnico, un’“illusione”: è un film caratterizzato da un violenza inaudita, ma la rappresentazione è ipertrofica, sopra le righe, volutamente barocca e quasi giocosa, con uomini che vengono colpiti da pallottole e sono sbalzati via come se li avesse centrati una cannonata, spruzzano getti di sangue che paiono geyser, saltano in aria con la dinamite e di loro non resta solo fumo e polvere, e così via. Il realismo tarantiniano si tinge insomma, anche in virtù di una recitazione molto “gigiona” da parte di un cast particolarmente in vena e di alcuni intermezzi più leggeri, di un surrealismo che consente anche a scene molto violente di risultare digeribili perfino ad un pubblico non avvezzo al cinema cruento, e ad un film che per trama potrebbe tranquillamente essere definito drammatico di scivolare via non dico come una commedia ma quasi.

Tuttavia Tarantino sa anche modulare molto bene questa distanza, e cambiare registro in un battibaleno, catapultando d’improvviso lo spettatore nel bel mezzo dell’orrore. Alcune scene, tra l’altro le più elusive dal punto di vista della macchina da presa, la quale proprio in quei frangenti evita la messa in scena diretta del sangue, raccontano la violenza senza filtri “gigioni”, e richiamano privandola di orpelli la tremenda realtà storica in cui il film si ambienta: penso soprattutto alla sconvolgente scena del combattimento tra i mandingo, due schiavi che vengono fatti combattere fino alla morte per il solo divertimento dei negrieri. È lo schiavismo il periodo di cui stiamo parlando, e lo schiavismo, come dice giustamente Spike Lee, fu un olocausto, non una farsa da spaghetti western. L’errore interpretativo di Spike Lee, che sulla scorta di questa giusta valutazione ha deciso di non andare nemmeno a vedere Django, sta però nel fatto che Tarantino non sottovaluta affatto l’episodio storico: la “leggerezza” del film è solo uno strumento narratologico per conferire al film il taglio giudicato dal regista più idoneo, ma, in un film di certo non estraneo alla parodia, non c’è affatto l’intenzione di parodiare – al limite di “satirizzare”, ed è cosa ben diversa – il periodo storico, la cui drammaticità emerge appunto in alcuni lampi isolati ma decisamente d’effetto. Manca l’interesse di fare un film storiografico (per quello, al limite, aspettiamo di vedere Lincoln), non l’interesse nei confronti della storia in sé. Che alla storia “seria” ci si possa accostare in un modo che sia fuori dagli schemi ma non per questo degradante s’era già visto d’altronde con il Dottor Stranamore di Kubrick (e si potrebbero citare altri casi, come il poco noto Vogliamo vivere di Ernst Lubitsch, capolavoro del quale prima o poi varrà la pena parlare).

Può avere una relazione con quanto appena detto anche osservare l’amore di Tarantino per i cosiddetti B-Movie, meglio se italiani, e il suo vezzo di prestare il proprio il talento per farne ramake che siano sicuramente migliori dal punto di vista tecnico ma che non ne tradiscano lo spirito (il Django originale era uno spaghetti western, che però non trattava dello schiavismo, girato da Sergio Corbucci nel 1966 con Franco Nero, presente anche in un cameo del film di Tarantino). La commistione tra alto e basso, tra film “minori” e produzioni hollywoodiane, genera di fatto l’apertura di uno spazio, di un limbo incantato, dove le pose raffinate da cinema d’autore sono rinnegate in nome di una sciatteria “da serie B” tanto voluta e ostentata quanto mendace e raffinata, perché figlia non già di scarsità di mezzi ma al contrario di un lavoro certosino, di una fattura pregevolissima. E la medesima commissione, anche se ribaltata, è operata appunto nei confronti della storia, anzi della Storia con la S maiuscola (ora è lo schiavismo, ma in Bastardi senza gloria era toccato al nazismo, due argomenti di certo non da poco), trattata con una sciatteria anch’essa ostentata ma solo apparente.

Il “segreto” di Django Unchained, che dura quasi tre ore ma fila via come un videoclip di dieci minuti e resta attaccato allo spettatore come un profumo (o come l’odore della polvere da sparo...), non sta certo solo qua. Django è unchained, senza catene, nel senso che è liberato (nella Roma antica si sarebbe detto un liberto) da un eccentrico cacciatore di taglie che poi lo “assume” come “aiutante”, ma è senza catene anche nel senso di scatenato, perché proverà, sempre con l’aiuto del cacciatore di taglie, a liberare la moglie, anch’essa schiava, e per farlo non andrà certo per il sottile. La trama insomma, se così si può dire, c’è: il film è lungo ma non si intrattiene in lungaggini, ha semplicemente tanto da raccontare. E non annoia. Come già accennato, c’è anche la grandissima prova recitativa degli attori, meravigliosi, su cui spicca un Cristoph Waltz che, già magnifico in Bastardi senza gloria, deve trovarsi molto bene con Tarantino (al quale tra l’altro deve la fama internazionale). Il resto è Tarantino stesso (che recita pure in una piccola parte nel finale): se, come diceva García Márquez, il cinema è soltanto una macchina d’illusioni, la macchina d’illusioni di Tarantino è particolarmente oliata ed efficace, e Django Unchained credo che possa essere la definitiva consacrazione di un regista ormai, con assoluto merito, già pienamente affermato.

Cristoph Waltz e Jamie Foxx in una scena del film

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