venerdì 18 maggio 2012

David Foster Wallace - La scopa del sistema


David Foster Wallace, La scopa del sistema, Einaudi, Torino, 2008, pagg. 553
Titolo originale: The Broom of the System
Anno di prima pubblicazione: 1987
Traduzione di Sergio Claudio Perroni
Voto: 9,5




Tenetevi forte: il genio di David Foster Wallace – uno degli autori più interessanti della nouvelle vague narrativa americana, purtroppo suicidatosi nel 2008 a poco più di quarantacinque anni – non lascia scampo! Scrivere un romanzo così è una follia: 550 pagine che mettono letteralmente sotto pressione il lettore, bombardandolo di personaggi, ragionamenti, racconti, racconti nei racconti, dialoghi, monologhi, salti e avvitamenti. Lo sforzo che il lettore deve fare nel costruire e ricostruire il racconto, che l’Autore come Penelope gli fa e disfà davanti agli occhi, è davvero notevole. DFW (come lo chiamano i suoi ammiratori) racconta tutto – realizzando quasi l’utopia di Borges del racconto “universalizzante” – ma riesce a tenere fuori il centro dell’azione, è cioè ridondante nel contesto (e contesto è parola centrale del romanzo) e sfumato al centro, è fluviale ed ellittico allo stesso tempo (tant’è che la protagonista, l’arzilla vecchietta Lenore, è solo evocata dagli altri personaggi senza comparire mai in prima persona sulla scena, dove è “rappresentata” dall’omonima bisnipote). E non è tutto: DFW è oltretutto maestro di sperimentalismo anche formale, per cui in La scopa del sistema troviamo capitoli in terza persona, capitoli in prima persona, capitoli di soli dialoghi (lunghe parti del meraviglioso nono capitolo sono occupate dalle ridondanti parole di un solo personaggio, il prepotente padre di Lenore junior: quale modo migliore c’è per rappresentare una persona che non sa ascoltare gli altri?), lettere, documenti, trascrizioni di sedute psicanalitiche, insomma c’è di tutto, e ad ogni “ambiente” l’Autore sa adattare il registro con maestria da padre della letteratura. Ed ecco qua la vera forza di DFW (che ha pubblicato questo romanzo a soli 25 anni!): pur tessendo un romanzo dalla complessità pazzesca (e col finale sospeso dopo 550 pagine!), è in grado di avvincere il lettore, avvinghiarlo a questo testo forte e misterioso grazie ad una scrittura superlativa, in grado come detto di variare e modulare, ma soprattutto di giocare con la lingua. La parola come sfida giocosa, il racconto come chiave per svelare il mondo. O, almeno, svelarne la follia, dato che nel romanzo vediamo scorrere un’America impazzita dai personaggi svitati e caratteristici come quelli dei vecchi poemi cavallereschi, ma addirittura più stralunati, come la battagliera nonnina a sangue freddo (letteralmente a sangue freddo...) di stretta osservanza wittgensteiniana, il pappagallo che fa comizi religiosi in TV senza però risparmiarsi qualche sconcia oscenità, il magnate che si vuole pappare l’intero universo (altro che Borges, appunto!), e via dicendo, fino alla splendida Lenore junior, cardine del romanzo, un personaggio a tutto tondo di cui non ci si può non innamorare sin dal primo, splendido, capitolo.

Fornire un’interpretazione di un siffatto romanzo è impresa non avulsa da rischi e che richiederebbe molte pagine: l’edizione Einaudi di riferimento – oltre ad essere tradotta in modo pressoché magistrale (e non deve essere stato facile per il traduttore Sergio Claudio Perroni portare a termine una simile impresa) – è dotata di un’ottima introduzione di Stefano Bartezzaghi che raccomando di leggere (però a fine romanzo, perché letta prima rovina la sorpresa: è, come spesso purtroppo accade, un’introduzione che sarebbe dovuta essere piuttosto una postfazione) e che mi sembra condivisibile. Proporre infatti, come fa Bartezzaghi, una chiave logica (nel senso tecnicamente filosofico del termine) per leggere il romanzo mi sembra azzeccato, oltre che suggerito in molteplici punti dal testo stesso (a partire dal pallino che nonna Lenore ha per Wittgenstein e per gli indovinelli paradossali). Non serve dire altro, a parte ricordare che un’immagine fondamentale del romanzo è quella del barbiere del villaggio che fa la barba a tutti quelli che la barba non se la fanno da sé, e a cui scoppia la testa perché non sa capire se se la deve fare da sé oppure no (in entrambi i casi, è un paradosso logico). E anche a noi lettori di La scopa del sistema non può che scoppiare la testa, non solo perché DFW ci regala una storia complessa come un paradosso, ma anche perché questo romanzo è – nel senso positivo del termine – una vera e propria cannonata!

- Stasera come state a bistecche?
- Bistecche, signore? Stasera le nostre bistecche sono semplicemente superbe, se mi è consentito dirlo. Esclusivamente eccellenti tagli di manzo, accuratamente selezionati e ancor di più accoratamente frollati, cotti alla perfezione in base al livello di cottura da lei indicato, signore, e serviti con la sua scelta di patate e verdure.
- Da come le descrivi si direbbero succulente.
- Lo sono, signore.
- Portamene nove.
- Mi scusi?
- Portami nove bistecche, per favore.
- Vuole nove bistecche tutte in una volta?
- Per favore.
- E chi, se posso permettermi, si occuperà di consumarle, signore?
- Vedi qualcun altro seduto qui al mio tavolo? Sarò io ad occuparmi di consumarle.
- E come mai potrà riuscirci, signore?
(pag. 98)

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