venerdì 8 febbraio 2013

Gabriel García Márquez - Cent’anni di solitudine


Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, Mondadori, Milano, 1983, pagg. 377
Titolo originale: Cien años de soledad
Anno di prima pubblicazione: 1967
Traduzione di Enrico Cicogna
Voto: 10




Se, costretto con le spalle al muro, dovessi per forza scegliere il miglior romanzo di sempre, alla fine, pur consapevole dell’enorme mole di titoli altrettanto degni di essere citati, indicherei proprio Cent’anni di solitudine, capolavoro fra i capolavori prodotti da uno degli scrittori più importanti del Novecento come il (meritato) Nobel colombiano Gabriel García Márquez. Ho l’impressione che Cent’anni, libro splendido ed “enorme” non solo per ponderosità del tomo in sé ma anche per ampiezza dei temi trattati, stia alla letteratura contemporanea come i grandi poemi omerici stanno a quella classica, che siamo insomma nel campo dei libri che non sono solo “bestseller di successo” o “casi editoriali”, ma che segnano un’epoca e la cultura di un tempo. D’altra parte García Márquez, al di là di qualche perdonabile caduta senile, non si discute, e qua, anno 1967, è al massimo splendore, alle prese con un romanzo che suggella l’intera sua produzione letteraria fino ad allora (gli scritti precedenti possono essere in gran parte considerati come non indegni preamboli del capolavoro): in un’epoca che, come ciclicamente accade, teorizzava la fine del romanzo, o almeno del romanzo come forma del racconto e della rappresentazione, García Márquez, oltretutto da un’America Latina ancora periferia dell’impero della produzione letteraria, tira fuori dal cilindro un romanzo dall’impatto biblico, un trascinante uragano di storie, un testo pieno fino all’orlo di vicende ed episodi, di aneddoti e racconti. “Mi chiedo se conosco un altro libro in cui ci sia un numero di storie così alto”, ha osservato giustamente Alessandro Baricco (delle cui doti di scrittore confesso di non essere un grande ammiratore, ma che invece apprezzo molto nei panni di critico letterario), “c’è da pensare che si tratti di una questione di perfidia: quando vedi García Márquez sfiorare e alla fine buttare via spunti con cui altri camperebbero per duecento pagine, capisci che un po’ era anche una superba prova di forza, una specie di arrogante dimostrazione di superiorità1.

La “resurrezione” del romanzo non è solo frutto della straordinaria fantasia di García Márquez, della sua creatività che affonda le radici nell’eccezionale tradizione popolare colombiana popolata di spiriti e magie: c’è anche la fenomenale macchina narrativa che sostiene il romanzo, lo stile ipnotizzante con cui le vicende vengono raccontate, uno dei migliori usi dei dialoghi – misurati e sempre significativi, spesso icastica chiusura degli episodi – mai proposti nella storia della letteratura. Quando uno scrittore sa scrivere così, ogni romanzo che crea è bello. Come detto, però, Cent’anni di solitudine non è solo forma, è anche molta molta sostanza: è un racconto di racconti, un romanzo-mosaico di storie che scorrono una dopo l’altra, esaurendosi e rigenerandosi di volta in volta; è la saga familiare della dinastia Buendía ambientata nell’ormai leggendaria Macondo, un paese simbolo (o un paese sintesi, come suggerisce Cesare Segre2) della Colombia, dove mito e storia si fondono, e tutto è pervaso di metafisico e sovrannaturale, ma di un metafisico sovrannaturale raccontato come se fosse normalissimo, a creare un affascinante effetto di straniamento che, nella sua “ordinarietà della straordinarietà”, è stato non a torto definito dai critici come “realismo magico”.

Si tratta insomma di un affresco dell’America Latina sospeso tra mito e leggenda, una storia più vera del vero perché non racconta vicende storiche (quelle non sono assenti, ma sono per lo più trasfigurate dal filtro narrativo) ma il modo con cui il popolo le ha vissute: ci sono forti tinte autobiografiche nel racconto, specialmente nella parte finale, ma anche tratti assolutamente generali, un’indagine sull’umanità, una riflessione sul tempo che, “senza terminare di terminarsi mai” (pag. 366), finisce e ricomincia, si annoda e si lega, in una linea del tempo che, lungi dall’essere lineare, ricorda semmai una ruota. E, dulcis in fundo, si tratta anche di uno strepitoso omaggio alla letteratura. L’importanza della memoria, sin dal memorabile incipit (uno dei più begli incipit di sempre), è uno dei concetti più importanti del romanzo (e dell’opera márqueziana), tanto che, come ha notato Fulvia Bardelli in un importante saggio3, il sintomo più grave della peste dell’insonnia che affligge Macondo a metà romanzo è proprio l’amnesia, e verso la fine, quando gli abitanti di Macondo (tranne José Arcadio Secondo, che infatti nella sua diversità è come se sparisse agli occhi delle milizie che gli danno la caccia) scelgono di dimenticare il massacro dei lavoratori della compagnia bananiera, il villaggio è colpito da una vero e proprio flagello biblico, un diluvio di oltre quattro anni. La letteratura è da parte sua il mezzo più nobile e alto per veicolare la memoria tramandandola, rendendone in questo modo eterni i contenuti4. Cent’anni è allora anche un’opera metaletteraria sulla letteratura che racconta e rappresenta se stessa, la propria nascita e la propria fine, il proprio essere non un riflesso della realtà ma essa stessa realtà, o comunque un piano della realtà. Nel finale – a proposito, anche l’excipit è uno dei migliori di sempre – Aureliano Babilonia legge sulle pergamene in sanscrito di Melquíades la propria storia, legge di se stesso che legge, e così si chiude un cerchio in cui realtà e letteratura non sono più piani paralleli che non si toccano mai, ma piani obliqui, il cui punto di tangenza – quasi un corto circuito concettuale – si situa proprio alla fine del romanzo, quando lo scrittore getta la penna, il lettore chiude il libro, e il meraviglioso mondo di carta rappresentato al suo interno cessa fatalmente di esistere5. Ma allora è stato tutto inutile? No, perché da questa irrimediabile fine sopravvive ciò che ne resta impresso nella memoria, scopo ultimo e sigillo dell’intero lavoro letterario. Così come resta impresso nella memoria questo indiscutibile capolavoro intitolato Cent’anni di solitudine.

Nella stanzetta appartata, dove non era mai arrivato il vento arido, né la polvere, né il caldo, entrambi si ricordavano della visione atavica di un vecchio col cappello ad ali di corvo che parlava del mondo dando di spalle alla finestra, molti anni prima che loro nascessero. Ambedue scoprirono che lì era sempre marzo e sempre lunedì, e allora capirono che José Arcadio Buendía non era così pazzo come raccontava la famiglia, ma che era invece l’unico provvisto di sufficiente saggezza da intravedere la verità che anche il tempo subiva inciampi e incidenti, e poteva pertanto scheggiarsi e lasciare in una stanza una frazione eternizzata.
(Pag. 317)

Note
1 Alessandro Baricco, Senza terminare di terminarsi mai, in AA. VV., Il romanzo. Lezioni, a cura di F. Moretti, P. V. Mengaldo e E. Franco, Einaudi, Torino, 2003, pagg. 592-3.
2 Cesare Segre, Introduzione, in G. García Márquez, Opere Narrative, volume primo, Mondadori, Milano, 1987, p. XIII.
3 Fulvia Bardelli, Il privilegio della memoria, in AA. VV., Gabriel García Márquez, a cura di P. L. Crovetto, Tilgher, Genova, 1979.
4 Interessante a tal proposito una dichiarazione dello stesso García Márquez sugli scrittori latino-americani autori di romanzi sociali e di denuncia: “Il grande paradosso degli scrittori che con molta buona fede hanno voluto esprimere il terribile dramma politico e sociale delle nostre masse, e nient’altro che quello, è che sono diventati gli scrittori più minoritari del mondo: nessuno li legge... Io penso che il nostro contributo perché l’America latina abbia una vita migliore non sarà più efficace se scriviamo romanzi benintenzionati che nessuno legge, ma lo sarà piuttosto se scriviamo buoni romanzi... In breve, credo che il dovere rivoluzionario dello scrittore sia quello di scrivere bene. Questo è il mio impegno” (Armando Durán, Conversaciones con Gabriel García Márquez, in AA.VV., Sobra García Márquez, Biblioteca de Marcha, Montevideo 1971, pag. 36).
5 Per approfondire l’argomento, si raccomanda la lettura di Roberto Paoli, Invito alla lettura di Gabriel García Márquez, Mursia, Milano, 1987, pagg. 162-163.

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