venerdì 11 novembre 2011

Peter Cameron - Un giorno questo dolore ti sarà utile


Peter Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile, Adelphi, Milano, 2007, pagg. 206
Titolo originale: Someday This Pain Will Be Useful to You
Anno di prima pubblicazione: 2007
Traduzione di Giuseppina Oneto
Voto: 9




A diciotto anni, James sta trascorrendo l’estate prima di trasferirsi da New York alla Brown University. Ma non ci vuole andare: è un ragazzo con seri problemi a relazionarsi con gli altri, specialmente con i propri coetanei (anche se pure il mondo degli adulti è “stupidamente brutale e pericoloso come il regno dell’infanzia”, p. 193). È questo l’epicentro di Un giorno questo dolore ti sarà utile, riuscitissimo romanzo breve di Peter Cameron – noto soprattutto per Quella sera dorata, libro che in molti, ma non io, preferiscono a questo successivo testo: da entrambi, sono state tratte versioni cinematografiche; quella di Un giorno questo dolore ti sarà utile, curata da Roberto Faenza, uscirà nel febbraio 2012. L’Autore è bravissimo nello svolgere il racconto con maestria narrativa e grande abilità di scrittura, fino a condurre in porto una storia che ricorda un altro “dramma ironico adolescenziale” quale Il giovane Holden di Salinger. E così James riesce come un “disadattato” irrimediabilmente simpatico: del resto, il suo vero problema è quello di non riuscire ad adattarsi ad un mondo al quale in fin dei conti non c’è nessuna buona ragione per volersi adattare. Il furore critico con cui Cameron mette alla berlina la società americana è leggero ma inflessibile, e dà risultati sublimi: la mamma che si sposa ogni due anni e cerca di compensare la propria solitudine con cd di “self help”, la sorella sempre “in tiro” che salta da un letto all’altro, la psichiatra (soprattutto) che dall’alto della sua arroganza fa una grassa figura da imbecille – sono tutti tasselli di un mondo che, al di là di qualche eccezione (come la nonna, che James adora), lascia davvero poche speranze. E dire che nel mondo occidentale, ormai, in molti considerano la felicità un obbligo, e chi non è felice viene considerato quasi un malato, e invitato a curarsi: ma qual è il motivo per cui dovremmo essere tutti così felici? Una persona che fosse felice tutti i giorni della sua vita, forse, più che sana sarebbe un’idiota. James invece, se non altro, al di là della sua refrattarietà agli altri, che egli cerca comunque di combattere, prova a non rinnegare se stesso e il proprio essere solo per una sterile adesione alle vacue istanze della società contemporanea. Ed alla fine, decide di non buttare via niente delle cose lasciategli dalla amata nonna, e non solo per venerarne il ricordo, ma per la semplice constatazione che a diciotto anni si è troppo giovani per capire veramente cosa servirà in futuro: in un mondo che corre sempre di più (e non si per dove), anche fermarsi per riflettere e prendere il tempo necessario per orientarsi può essere una grande trasgressione. Niente da dire: questo romanzo di Cameron è davvero un ottimo lavoro.

«Allora, James,» l’ho sentita domandare all’improvviso «come mai sei venuto?».
Mi è sembrata una domanda cretina. Se vai dal dentista puoi dire: «Mi fa male un dente», se entri da un gioielliere puoi chiedergli se ti cambia la batteria dell’orologio, ma a una psichiatra che dici?
«Come mai sei venuto?». Ho ripetuto la domanda sperando che la riformulasse in modo più intellegibile.
«Sì». Ha sorriso, ignorando il mio tono. «Come mai sei venuto?»
«Immagino che se lo sapessi non sarei qui».
«E dove saresti?».
«Temo di non saperlo».
«Temi, perché? Hai paura?».
Mi sono reso conto di avere di fronte una di quelle persone indisponenti che prendono alla lettera qualsiasi cosa ti esca dalla bocca. «Mi sono espresso male» ho detto. «Non lo so e basta».
«Sei sicuro?».
«Sicuro di che? Di non saperlo o di non aver paura?».
«Tu quale credi?».
«Per favore la smetta».
«La smetta di far cosa?».
Ho pensato che a furia di ripetere l’uno le parole dell’altro, in quarantacinque minuti non saremmo arrivati molto lontano. «Per favore non risponda alle mie domande con una domanda, in questo modo da terapeuta».
            Senza mostrare la minima reazione o titubanza ha detto: «Che cosa pensi della psicoterapia?».
Mi sembrava una gara per vedere chi faceva saltare prima i nervi a chi. Non mi pareva molto terapeutico, ma ce l’ho messa tutta per vincere. «Penso che la psicoterapia sia un concetto fuorviante delle società capitalistiche, in base al quale il crogiolarsi nell’analisi della propria vita sostituisce l’atto stesso di viverla».
(pagg. 70-1)

2 commenti:

  1. Ciao, non ho ancora finito il libro, ma mi è piaciuta moltola tua analisi.
    Damiano

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  2. Grazie Damiano, spero che il finale del romanzo possa piacerti (e credo che sarà così perché Cameron ci sa fare) e che tu possa presto tornare a leggere (e a commentare, se ti va) questo blog!
    Ciao,
    Francesco!

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