venerdì 2 novembre 2012

Elling


Elling (2001)
Titolo originale: Elling
Regia: Petter Næss
Con: Per Christian Ellefsen, Sven Nordin
Voto: 8




Elling e Kjell Bjarne, due pazienti di una clinica psichiatrica, ottengono dal governo norvegese un appartamento nel centro di Oslo, in cui potranno vivere, totalmente sovvenzionati, a patto che dimostrino all’assistente sociale loro assegnato di poter e saper condurre una vita “normale”. Ma cos’è la normalità, ammesso che esista? E come la si raggiunge, ammesso che la si voglia raggiungere? I due amici non si trovano in una situazione semplice: "Alcuni sciano da soli verso il Polo Nord, mentre io devo raccogliere tutto il mio coraggio per attraversare la sala di un ristorante, dice sconfortato Elling ad inizio film. Più che un romanzo di formazione, è un percorso a zig-zag tra le asperità della condizione umana, ricca di paure come di gioie, in un film molto nordico per l’impianto di storia seria che non rinuncia a suscitare sorrisi e divertenti paradossalità. Pellicola norvegese di una decina di anni fa girata da Petter Næss ed ispirata al romanzo Fratelli di sangue di Ingvar Ambjørnsen (edito in Italia da Pisani), Elling è stato un clamoroso successo in patria, al punto che ne sono stati fatti tre sequel (uno dei quali diretto dallo stesso Næss), ma ha avuto buon seguito anche all’estero, tanto da finire in nomination come miglior film straniero ai Premi Oscar 2002 (è il quarto e ad oggi ultimo film norvegese ad aver avuto questo onore); questo non gli è bastato per evitare attacchi molto duri da parte di alcuni critici, che lo hanno stroncato per una indiscutibile riduzione ai minimi termini di un tema sicuramente complesso trattato con superficialità anche se con rispetto. Non credo però che il film vada letto come un lavoro sul disagio psichico, sebbene da esso prenda spunto: a prescindere dai giudizi estetici che ciascuno può formulare, ritengo che Elling sia interpretabile più che altro come un percorso di formazione “umano”, una speranzosa riflessione sulla vita. Perché a conti fatti il film mostra che la “normalità” in realtà non esiste, che nessuno è normale, e che anzi, come sostiene icastico Ambjørnsen, “Non sono convinto che sia normale essere normali”. Allora non può esistere nemmeno una “normalizzazione” tout court. L’unico percorso di formazione che ci può essere è la realizzazione di sé, e la realizzazione di sé è trovare la giusta dimensione al proprio io e il giusto rapporto dell’io con gli altri. Il tema non è di poco conto, in una delle nazioni più progredite al mondo che eppure, come si è già detto parlando di Doppler di Erlend Loe, non è estranea a fenomeni di “rigetto” contro la società come alcolismo, disagio psichiatrico, alto tasso di suicidi, razzismo e addirittura, come avvenuto lo scorso anno, terrorismo. Scrittori come Ambjørnsen, Loe ma anche Johan Harstad e pure Arto Paasilinna (che è sì della vicina Finlandia, ma ben noto in tutta la Scandinavia e anche oltre) si sono posti quindi la domanda di come sia possibile stare così male in un paese in cui si sta così bene. E la risposta sta probabilmente nell’eccessiva omologazione dei comportamenti, nello smaccato formarsi di una società così conformista e “perfettina” da risultare a qualcuno insopportabile. Come “sopravvivere” ad una società così “omologante” restando comunque se stessi? E ancora: come restare se stessi in una società così “omologante” senza finirne emarginati o diventare un’emergenza sociale? Sono questi i problemi affrontati da Elling e Kjell Bjarne ma, a ben pensarci, sono problemi che hanno un respiro universale, non solo nel contesto in cui sono inscenati. Ecco perché, pur nella sua indiscutibile leggerezza, Elling risulta comunque un lavoro interessante e significativo, oltre che estremamente godibile.

Per Christian Ellefsen e Sven Nordin in una scena del film

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