venerdì 30 novembre 2012

East is East


East is East (1999)
Titolo originale: East is East
Regia: Damien O’Donnell
Con: Om Puri, Linda Bassett
Voto: 8




Sobborghi di Manchester, anni ’70: uomo pachistano con moglie inglese e un nugolo di figli da gestire, ossia da educare alla pachistana in un contesto purtroppo per lui britannico. È chiaro che il poveruomo non farà vita facile: tanto più sarà rigido e duro nell’imporre alla prole il conservatorismo della comunità pachistana, tanto più le lusinghe della società indigena sedurranno i figli verso un moto di “libertà” che porterà ad un inevitabile punto di rottura. East is East è una commedia del ’99 non troppo famosa ma neanche del tutto sconosciuta, molto apprezzata per la franchezza con cui tratta un tema tanto spinoso come quello dell’integrazione non indolore delle comunità pachistane (e magari non solo quelle) immigrate nel Regno Unito: il film effettivamente è ottimo, anche se, per essere una commedia, è decisamente agrodolce, talvolta più agra che dolce. Al di là di alcuni spunti sicuramente divertenti, mi sembra che il tema sia trattato infatti con la giusta durezza, e che non manchino momenti quasi drammatici, specialmente quelli in cui il confronto tra i figli ormai “anglicizzati” e il padre violento che non si rassegna alla loro “perdita” si fa più concitato. La famiglia si rivela talvolta tanto oppressiva che la messa in scena si fa claustrofobica. E questo non è un difetto: ben girato, il film offre uno spaccato interessante su una realtà che è bene conoscere. Se un difetto glielo vogliamo trovare, East is East mi pare un po’ troppo sbilanciato nel tratteggiare con stupida ottusità il padre conservatore pachistano, lasciando intendere che la società britannica sia invece il ricettacolo per eccellenza del progressismo più illuminista. È una chiave di presentazione della realtà forse un po’ troppo superficiale, ma non per questo si può accusare il film di razzismo. Al contrario, soggetto e sceneggiatura non sono di un inglese, ma proprio di un pachistano, Ayub Khan-Din (un po’ come avviene in un film per impostazione molto simile a questo, Jalla! Jalla!, che è svedese ma scritto e diretto dal libanese Josef Fares). Credo quindi di poter leggere in questo duro atto di accusa nei confronti della famiglia pachistana, opposto alla celebrazione della società britannica, tutto l’amore per l’occidente tipico di chi, immigrato da lontano, in Europa ha scoperto un mondo che gli è andato a genio: questo amore – che non sempre significa per forza rigetto delle proprie radici, anzi talvolta lo vela di particolare malinconia, come vediamo nello splendido Persepolis di Marjane Satrapi – può abbagliare così tanto da non far vedere che anche in Europa ci sono problemi e pregiudizi come in tutte le altre parti del mondo. In tal senso, questo può quindi non essere inteso come un “limite” del film, ma come una caratteristica che ne spiega meglio le istanze di fondo, quelle che in definitiva hanno spinto alla stesura della sua trama.

Una scena del film

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