venerdì 13 settembre 2013

Isabel Allende - La casa degli spiriti

Isabel Allende, La casa degli spiriti, Feltrinelli, Milano, 1987, pagg. 364
Titolo originale: La casa de los espiritus
Anno di prima pubblicazione: 1982
Traduzione di Angelo Morino e Sonia Piloto Di Castri
Voto: 7,5



Prima premessa: non solo è giusto ricordare l’11 settembre, il cui anniversario è caduto pochi giorni fa; ma è ancora più giusto ricordare gli 11 settembre. Senza voler fare puerili classifiche per decidere quale sia la tragedia più grave, preferendo metterle sullo stesso piano più per un sentimento di pietas umana piuttosto che per mere valutazioni politiche che non è questa le sede per analizzare, l’11 settembre non è solo la data degli attentati terroristici di New York e Washington del 2001, ma anche del colpo di stato cileno del 1973. Visto che in molti in questi giorni si sono dedicati a commemorare il primo evento, noi – ma per fortuna non siamo soli in questo – rivolgeremo la nostra attenzione al secondo. Per farlo, parleremo del più famoso romanzo di Isabel Allende, La casa degli spiriti: quando si parla di golpe cileno, la Allende, non foss’altro per il cognome che porta e per la discendenza diretta (ne è una nipote) da Salvador, che quel giorno perse la vita, è sicuramente titolata a farlo.

Seconda premessa: da più parti, La casa degli spiriti è considerato grossomodo un capolavoro. In molti ne dànno quindi un giudizio assai più benevolo del mio che, come spiegherò più tardi, ha qualche motivo di riserva, sebbene riconosca pure io il valore del romanzo. Quelli che non hanno ancora letto il romanzo tengano quindi conto anche di questa osservazione: in molti hanno apprezzato La casa degli spiriti più di me.

Esaurite le premesse, eccoci al sodo. Siamo ovviamente in Cile, alle prese con la lunga saga familiare dei Trueba, la cui articolata e complessa vicenda si svolge essenzialmente nella casa di cui al titolo, una tenuta di campagna dalle alterne fortune nelle cui vicende si innescano spesso abbondanti dosi di sovrannaturale. Ecco che la prima metà (abbondante) di questo romanzo risulta, a mio modesto parere, un po’ dispersiva e altalenante, in grado di alternare pagine oggettivamente felici (le qualità scrittorie della Allende non sono in discussione) ad altre che mi sembra che stentino a decollare. La sensazione, forte, è che l’Autrice si impegni, almeno in questa parte, a ricalcare un po’ troppo da vicino le gesta del Gabriel García Márquez dei Cent’anni disolitudine, sebbene il maestro colombiano rispetto all’allieva cilena sia – e lo dico con tutto il rispetto – decisamente su un altro pianeta. In una casa degli spiriti che spesso ricorda la casa di Macondo, i Trueba sembrano lanciarsi all’inseguimento dei Buendía – con stranezze, personaggi particolare e aneddoti arguti – e perdono la sfida in modo netto. E il romanzo resta un giocattolo un po’ incompiuto, una serie di vorrei ma non posso che l’Autrice mette nella penna senza convincere troppo.

Tutto questo, come dicevo, fino a metà romanzo o poco oltre. Poi si svolta. La Allende inizia a raccontare – in modo non del tutto dichiarato ma assolutamente scoperto – il colpo di stato di Pinochet, di cui lei stessa fu testimone (non solo dell’11 settembre, ma anche di tutto ciò che successe prima), e La casa degli spiriti cambia del tutto marcia, divenendo un romanzo meraviglioso. Duro e diretto, evoca vivamente il terrore e l’orrore di quei tempi, rivelando ancora di più le abilità di scrittura e di analisi della Allende, in grado di raccontare la storia “vera” filtrandola attraverso la lente della finzione letteraria, una lente non distorcente ma poetizzante che dà valore anche artistico, e non solo storiografico, al romanzo.

La scelta della Allende di raccontare il “falso” affinché sia capito il vero è del tutto azzeccata e riuscita, tanto che i capitoli finali – la cui centralità rispetto alla prima parte mi pare indiscutibile – hanno una potenza tale da dare valore all’intero romanzo. È in questa seconda parte che le due anime del testo, quella magica e quella razionale, simbolo vivo della lacerazione del Cile di quei tempi, riescono a coniugarsi con felicità, e non con quella composizione a fatica che balenava ad inizio romanzo.

In generale, quindi, dal punto di vista meramente narrativo, personalmente – e ricordo che è un giudizio del tutto mio, con cui non saranno d’accordo i molti amanti di questo romanzo – avrei preferito un libro che inseguisse meno fronzoli à la García Márquez e puntasse sin dall’inizio sull’impostazione “poeticamente politica” della seconda parte. Dal punto di vista più generale, tutto questo non toglie che il romanzo meriti assolutamente una lettura, e non solo perché è un buon romanzo: mai come in questo caso conoscere il passato è di insegnamento per il futuro.

Alba stava raggomitolata nell’oscurità. Le avevano tolto con uno strappo la carta gommata dagli occhi che avevano sostituito con una benda stretta. Aveva paura. Ricordò l’allenamento di suo zio Nicolás quando la preveniva contro il pericolo di avere paura della paura, e si concentrò per vincere il tremito del suo corpo e chiudere le orecchie agli spaventosi rumori che le giungevano da fuori.
(pag. 340)

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