Tracklist:
1. Belli capelli – 2. Caterina – 3. La leva calcistica della classe ’68 – L’abbigliamento
di un fuochista – 5. Titanic – 6. I muscoli del Capitano – 7. Centocinquanta
stelle – 8. Rollo & his Jets – 9. San Lorenzo
Voto:
9
Come
gli ultimi drammatici eventi di attualità ci hanno ricordato, niente è più
metaforico di un grande e lussuoso transatlantico che cola a picco come una
qualsiasi bagnarola. Metaforico di una società che va a fondo, di un’umanità
incapace di condurre serenamente in porto il proprio destino. In questi giorni
gli occhi di tutti sono tristemente puntati sul relitto della Costa Concordia malinconicamente
incagliato nel mare del Giglio, ma il naufragio più disastroso e famoso della storia
fu sicuramente quello del Titanic. Ispirato dalla lettura di L’affondamento del Titanic di
Enzesberger, si occupò della vicenda, in questo magnifico concept-album del
1982, il bravissimo Francesco De Gregori.
Tecnicamente,
parlare di Titanic come di un concept
può essere improprio: le canzoni dedicate al transatlantico affondato nel 1912
in realtà sono solo le tre centrali del disco. Le altre divergono dall’argomento
– anche se magari qualche relazione c’è comunque, ma ora non c’è tempo per parlarne
– e, quantunque tra esse ve ne siano di molto belle (una su tutte, celeberrima,
La leva calcistica della classe ’68,
quella di “Nino non aver paura di
sbagliare un calcio di rigore”), in questa sede non ce ne occuperemo,
dedicandoci soltanto alle canzoni sul Titanic.
La
narrazione degregoriana della vicenda del Titanic inizia da Southampton, porto
da cui partì la navigazione del transatlantico verso New York. Con L’abbigliamento di un fuochista siamo
in pieno clima folk – ad accompagnare De Gregori c’è la voce di Giovanna
Marini, artista molto attenta alla musica popolare – e si racconta il doloroso
distacco di una madre dal figlio che parte per lavorare in America. Il Titanic
non è citato, è solo alluso dall’amaro verso “questa nera nera nave che mi dicono che non può affondare”, e tutto
sommato la vicenda potrebbe riferirsi a qualsiasi emigrante costretto dalla
miseria ad abbondare la propria famiglia per tentare la sorte lontano da casa. È
un’ottica molto particolare per iniziare a parlare del Titanic, ma è figlia di
una grande intuizione di De Gregori: se il Titanic rappresenta la tragedia non
solo di una nave cha affonda, ma bensì di un’intera umanità che corre verso il
disastro, allora questa tragedia è anzitutto sociale. Sono le fratture sociali, conseguenza diretta di un
tessuto umano cui è sconosciuto il criterio dell’uguaglianza, a destabilizzare
il mondo. Significativo è allora che il ragazzo sia un fuochista, insomma un
addetto alle macchine, uno cioè che col proprio faticosissimo lavoro fa sì che
la nave vada avanti: il benessere dei ricchi si nutre come parassita della
fatica degli umili. Dalla nave che parte addobbata a festa la sciagura è ancora
lontana, ma per la madre che piange il figlio che se ne va il disastro è già
avvenuto, il figlio è come già morto,
inghiottito da un orizzonte dal quale comunque non tornerà (magnifico il senso
di lacrimoso estraniamento della donna che dice al figlio “Avrai dei figli con una donna strana e che non parlano l’italiano”:
nemmeno la lingua, per l’appunto la lingua madre,
resterà al figlio che se ne va). Il figlio mostra nelle proprie parole dalla
grammatica incerta un po’ più di ottimismo nei confronti del viaggio, e di
quella destinazione – l’America! – in cui cerca fortuna, ma il tono lacerante dell’intero
brano getta comunque un’ombra scura sulla partenza di questo portentoso mostro
dei mari.
Sul
Titanic, però, si balla e ci si diverte. Titanic,
una delle canzoni più celebrate di De Gregori, è infatti una canzone dal ritmo
trascinante e per certi versi divertente, raccontando i primi giorni di
navigazione, all’insegna dell’euforia e della gioia. La frattura sociale è
comunque evidente sin dal fulminante attacco – “La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e
spavento” – nonché dal felice alternarsi nell’intero brano di tre tonalità
diverse. I ragazzi di terza classe vanno in America “per non morire”, le ragazze di prima ci vanno “per sposarsi” ma, “tra l’amore
che tira e un padre che predica”, prende bene un po’ a tutti. La
superficialità della classe altolocata viene presa alla berlina tramite il
personaggio della “ragazza di prima
classe innamorata del proprio cappello”, simbolo impietoso della vacuità
degli status symbol e di chi ad essi si aggrappa. Al tema della frattura
sociale, se ne associa adesso un altro, centrale nella lettura degregoriana del
naufragio del Titanic: il falso mito del progresso. Al suono irresistibile di “questi nuovi ritmi americani” (si noti l’aggettivo
“nuovi”), la marea umano che viaggia sul Titanic è entusiasta di poter
viaggiare su una dimostrazione lampante dell’evoluzione tecnologica dell’uomo,
di poter prendere parte a quel che è di fatto un viaggio nel futuro (“il futuro è una palla di cannone accesa e
noi lo stiamo quasi raggiungendo”, si dice nella canzone successiva), in un
futuro in cui le conoscenze acquisite consentiranno all’umanità di vivere in
sicurezza e ricchezza (emblematico il riferimento al “marconista” dalle “lunghe
dita celesti nell’aria”, che comunica come se niente fosse “con Vienna e Chicago”). È un’umanità che
si fida, si fida ciecamente, del progresso di cui sta prendendo parte. E l’insegnamento
del Titanic è proprio questo: il progresso è inutile, anzi è addirittura
dannoso, se non vi si affianca un’evoluzione di pensiero in grado di gestire le
nuove tecnologie. Non c’è progresso alcuno se non siamo in grado di essere all’altezza
delle macchine che costruiamo. E non esiste nessuna macchina, neanche la “più
perfetta”, che non abbia bisogno di una gestione oculata. Anche la migliore
invenzione del mondo può risultare nociva se messa in mano a un cretino – e questo
è oggi particolarmente valido, non trovate?
Le
istanze dello scontro sociale e del falso mito di progresso emerse nelle due
precedenti canzoni si sommano e si sublimano nell’atto conclusivo di questa
narrazione: I muscoli del capitano. “La nave è fulmine, torpedine, miccia,
scintillante bellezza, fosforo e fantasia, molecole d'acciaio, pistone, rabbia,
guerra, lampo e poesia”, racconta la parte centrale del brano, in un impeto
volutamente futurista, a citare il movimento poetico, in voga proprio negli
anni del Titanic, che proprio nella fiducia nel progresso aveva il suo fulcro:
a smentire il mito ci penserà l’iceberg (il ghiaccio nella canzone precedente
era citato non a caso tre volte, qua no, c’è solo “in mezzo al mare una donna bianca, così enorme alla luce delle stelle”).
E ci penserà anche la figura centrale della canzone, il capitano (fugacemente
apparso anche nel brano precedente): egli ci appare come una sorta di “imago
Christi”, inaffondabile e onnipotente (“Guarda
i muscoli del capitano, tutti di plastica e di metano”). Qua la frattura
sociale è lampante e scoperta: il mozzo (a suo modo “parente” del fuochista),
pur nella sua ammirazione reverenziale verso il capitano (“non te lo volevo dire”), scruta un pericolo nell’aria e glielo
comunica. Ma il capitano ha una risposta perentoria a tutto, e la sua è
particolarmente agghiacciante: “Io non
vedo niente – andiamo avanti tranquillamente” (la rima
niente/tranquillamente è particolarmente densa di significato). E si sa come va
a finire: con gli umili che portano avanti la baracca (il fuochista) e si accorgono
del pericolo (il mozzo), mentre i ricchi corteggiano cappelli (la ragazza di
prima classe) e si schiantano contro gli iceberg (il capitano), il cerchio
delineato da De Gregori si chiude.
Metafora tremenda, il Titanic, ma significativa. Era il 1912, il lussuoso transatlantico era figlio dei propri tempi, di quella belle époque che, insieme alle nuove conquiste tecnologiche, prometteva grandi cose per il futuro. Passarono due anni (non venti, né dieci, ma solo due) e la prima guerra mondiale, devastante proprio come l’iceberg dell’Atlantico, si portò via tutti i sogni di grandeur (tra l’altro, proprio i futuristi erano – ma prima che essa avvenisse, non dopo! – grandi celebratori della guerra, che Marinetti definiva “sola igiene del mondo”). Il 1912 è anche l’anno di prima uscita di Morte a Venezia di Thomas Mann che, tra l’altro, racconta anche la stessa cosa: al Lido ce la spassiamo e non ci accorgiamo che a Venezia fa strage il colera. Mann si era accorto di qualcosa, forse perché gli artisti hanno un particolare sesto senso. Era il 1912. Son passati cent’anni esatti: non serve dire altro.
Metafora tremenda, il Titanic, ma significativa. Era il 1912, il lussuoso transatlantico era figlio dei propri tempi, di quella belle époque che, insieme alle nuove conquiste tecnologiche, prometteva grandi cose per il futuro. Passarono due anni (non venti, né dieci, ma solo due) e la prima guerra mondiale, devastante proprio come l’iceberg dell’Atlantico, si portò via tutti i sogni di grandeur (tra l’altro, proprio i futuristi erano – ma prima che essa avvenisse, non dopo! – grandi celebratori della guerra, che Marinetti definiva “sola igiene del mondo”). Il 1912 è anche l’anno di prima uscita di Morte a Venezia di Thomas Mann che, tra l’altro, racconta anche la stessa cosa: al Lido ce la spassiamo e non ci accorgiamo che a Venezia fa strage il colera. Mann si era accorto di qualcosa, forse perché gli artisti hanno un particolare sesto senso. Era il 1912. Son passati cent’anni esatti: non serve dire altro.
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