Jonathan Coe,
La casa del sonno, Feltrinelli, Milano, 1999, pagg. 305
Titolo
originale: The House Of Sleep
Anno di prima pubblicazione: 1997
Traduzione di Domenico Scarpa
Voto: 9,5
Magnifico e
geometricamente perfetto: La casa del
sonno del celebre scrittore inglese Jonathan Coe è una scoppiettante
macchina narrativa in cui ogni elemento della trama è legato in modo
sorprendente al resto della vicenda, in un’orchestrazione magistrale da parte
dell’Autore, che distribuisce con bravura e controllo totale tutti i pezzi
dell’intreccio. Un pugno di personaggi principali ruotano attorno ad Ashdown,
una severa villa sul mare inglese: essa è dapprima, nei capitoli pari, un
dormitorio universitario dove risiedono i personaggi da studenti; dodici anni
dopo, nei capitoli dispari, essa è diventata una clinica dove si studiano il
sonno e le patologie ad essa collegata, ed i personaggi in vario modo hanno
ancora a che fare con essa (e tra di loro). La magia del romanzo sta proprio
nella sua costruzione, che sembra richiamare l’antichissima tecnica dell’entrelacement (intrecciare nella storia
vari filoni narrativi saltando dall’uno all’altro continuamente, espediente
comune già nei poemi cavallereschi) declinata però in modo moderno e dinamico,
con criterio giocoso ma al tempo stesso rigoroso: capitolo dopo capitolo si
presentano vari tableaux narrativi
che sembrano indipendenti e autonomi, ma piano piano ne vengono svelati tutti i
collegamenti, tanto che alla fine (e per fine intendo l’ultima pagina) si
capisce che tutto è perfettamente combinato (ripeto: perfettamente) e non c’è
un solo elemento che sia fuori posto, inutile o superfluo.
Non c’è solo
questo. La bravura di Coe sta anche nello scrivere bene, nell’essere capace
cioè di una scrittura limpida e precipua che sia però anche in grado di
adattarsi ai vari registri richiesti dalla storia, tanto che sono altrettanto
efficaci sia i momenti drammatici della vicenda sia quelli più comici (e ve ne
sono alcuni veramente esilaranti). Notevole anche la tecnica di “sfumare” tra
di loro le sei parti del romanzo (l’ultimo periodo di ogni parte non termina
con un punto, ma rimane sospeso su un’espressione con cui si apre, con la
minuscola, il primo periodo della parte successiva): anche questa è una tecnica
di vago sapore provenzal-cavalleresco (penso alla cosiddetta coblas capfinidas) pure in questo caso
rielaborata in modo “moderno”, a sancire
anche semanticamente l’indeterminatezza dei confini tra una parte e l’altra,
tra presente e passato, tra sonno e veglia.
Già, perché
c’è anche un interessante aspetto contenutistico su cui vale la pena di fare un
accenno. Il romanzo di Coe pare pervaso da un senso di precarietà ontologica
che è poi anche gnoseologica: il personaggio di Sarah, che ha sogni tanto
vividi che non riesce a distinguerli dalla realtà, è emblema di un racconto in
cui ciò che è vero si sfuma e si intreccia con ciò che è immaginato, così come
lo fanno il passato e il presente. Se il reale è così incerto, altrettanto
incerto è pure il vero, o ciò che è percepito come tale, le convinzioni e i
sentimenti intimi di personaggi che dopo dodici anni per certi versi sembrano
così cresciuti da non essere neppure lontani parenti del loro io passato,
mentre per certi versi conservano tali idiosincrasie che sembrano non essere
cresciuti mai. Alla fine, il personaggio centrale è quello di Robert, colui che
più degli altri cambia aspetto esteriore – e clamorosamente – ma che in realtà
resta più uguale, e coerente, a se stesso. Come dire: non importa quello che
fai ma quello che sei, e quello che sei è l’unica cosa che conta veramente,
l’unica cosa che ha un senso in un mondo privo di qualsiasi certezza. Direi che
è un romanzo da non perdere.
Il professor
Cole posò forchetta e coltello e disse come in sogno: “Due anni e poi andrò in
pensione. Ho esercitato la professione per più di venticinque anni, e durante
questo periodo ho dovuto vedere la psichiatria trasformarsi, agli occhi del
pubblico, da seria disciplina medica e screditato segmento del pubblico
impiego, a capro espiatorio di tutti i mali che la società emana a getto
continuo. Mi sembra pertinente, del tutto pertinente che io concluda la mia
carriera facendo composizioni con carta e colla sotto la supervisione di un
tizio che ha dieci anni in meno del mio figlio più giovane.”
(pag. 234)
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