Gabriel
García Márquez, Cent’anni di solitudine, Mondadori, Milano, 1983, pagg. 377
Titolo originale: Cien
años de soledad
Anno di prima pubblicazione: 1967
Traduzione di Enrico Cicogna
Voto: 10
Se,
costretto con le spalle al muro, dovessi per forza scegliere il miglior romanzo
di sempre, alla fine, pur consapevole dell’enorme mole di titoli altrettanto
degni di essere citati, indicherei proprio Cent’anni
di solitudine, capolavoro fra i capolavori prodotti da uno degli scrittori
più importanti del Novecento come il (meritato) Nobel colombiano Gabriel García
Márquez. Ho l’impressione che Cent’anni,
libro splendido ed “enorme” non solo per ponderosità del tomo in sé ma anche
per ampiezza dei temi trattati, stia alla letteratura contemporanea come i
grandi poemi omerici stanno a quella classica, che siamo insomma nel campo dei
libri che non sono solo “bestseller di successo” o “casi editoriali”, ma che
segnano un’epoca e la cultura di un tempo. D’altra parte García Márquez, al di
là di qualche perdonabile caduta senile, non si discute, e qua, anno 1967, è al
massimo splendore, alle prese con un romanzo che suggella l’intera sua
produzione letteraria fino ad allora (gli scritti precedenti possono essere in
gran parte considerati come non indegni preamboli del capolavoro): in un’epoca
che, come ciclicamente accade, teorizzava la fine del romanzo, o almeno del
romanzo come forma del racconto e della rappresentazione, García Márquez,
oltretutto da un’America Latina ancora periferia dell’impero della produzione
letteraria, tira fuori dal cilindro un romanzo dall’impatto biblico, un
trascinante uragano di storie, un testo pieno fino all’orlo di vicende ed
episodi, di aneddoti e racconti. “Mi
chiedo se conosco un altro libro in cui ci sia un numero di storie così alto”,
ha osservato giustamente Alessandro Baricco (delle cui doti di scrittore
confesso di non essere un grande ammiratore, ma che invece apprezzo molto nei
panni di critico letterario), “c’è da
pensare che si tratti di una questione di perfidia: quando vedi García Márquez
sfiorare e alla fine buttare via spunti con cui altri camperebbero per duecento
pagine, capisci che un po’ era anche una superba prova di forza, una specie di
arrogante dimostrazione di superiorità”1.
La
“resurrezione” del romanzo non è solo frutto della straordinaria fantasia di
García Márquez, della sua creatività che affonda le radici nell’eccezionale
tradizione popolare colombiana popolata di spiriti e magie: c’è anche la
fenomenale macchina narrativa che sostiene il romanzo, lo stile ipnotizzante
con cui le vicende vengono raccontate, uno dei migliori usi dei dialoghi –
misurati e sempre significativi, spesso icastica chiusura degli episodi – mai proposti
nella storia della letteratura. Quando uno scrittore sa scrivere così, ogni
romanzo che crea è bello. Come detto, però, Cent’anni
di solitudine non è solo forma, è anche molta molta sostanza: è un racconto
di racconti, un romanzo-mosaico di storie che scorrono una dopo l’altra,
esaurendosi e rigenerandosi di volta in volta; è la saga familiare della
dinastia Buendía ambientata nell’ormai leggendaria Macondo, un paese simbolo (o
un paese sintesi, come suggerisce Cesare Segre2) della Colombia, dove
mito e storia si fondono, e tutto è pervaso di metafisico e sovrannaturale, ma
di un metafisico sovrannaturale raccontato come se fosse normalissimo, a creare
un affascinante effetto di straniamento che, nella sua “ordinarietà della
straordinarietà”, è stato non a torto definito dai critici come “realismo
magico”.
Si
tratta insomma di un affresco dell’America Latina sospeso tra mito e leggenda,
una storia più vera del vero perché non racconta vicende storiche (quelle non
sono assenti, ma sono per lo più trasfigurate dal filtro narrativo) ma il modo
con cui il popolo le ha vissute: ci sono forti tinte autobiografiche nel
racconto, specialmente nella parte finale, ma anche tratti assolutamente
generali, un’indagine sull’umanità, una riflessione sul tempo che, “senza terminare di terminarsi mai” (pag.
366), finisce e ricomincia, si annoda e si lega, in una linea del tempo che,
lungi dall’essere lineare, ricorda semmai una ruota. E, dulcis in fundo, si tratta anche di uno strepitoso omaggio alla
letteratura. L’importanza della memoria, sin dal memorabile incipit (uno dei
più begli incipit di sempre), è uno dei concetti più importanti del romanzo (e
dell’opera márqueziana), tanto che, come ha notato Fulvia Bardelli in un
importante saggio3, il sintomo più grave della peste dell’insonnia
che affligge Macondo a metà romanzo è proprio l’amnesia, e verso la fine,
quando gli abitanti di Macondo (tranne José Arcadio Secondo, che infatti nella
sua diversità è come se sparisse agli occhi delle milizie che gli danno la caccia)
scelgono di dimenticare il massacro
dei lavoratori della compagnia bananiera, il villaggio è colpito da una vero e
proprio flagello biblico, un diluvio di oltre quattro anni. La letteratura è da
parte sua il mezzo più nobile e alto per veicolare la memoria tramandandola,
rendendone in questo modo eterni i contenuti4. Cent’anni è allora anche un’opera metaletteraria sulla letteratura
che racconta e rappresenta se stessa, la propria nascita e la propria fine, il
proprio essere non un riflesso della realtà ma essa stessa realtà, o comunque
un piano della realtà. Nel finale – a proposito, anche l’excipit è uno dei
migliori di sempre – Aureliano Babilonia legge sulle pergamene in sanscrito di
Melquíades la propria storia, legge di se stesso che legge, e così si chiude un
cerchio in cui realtà e letteratura non sono più piani paralleli che non si
toccano mai, ma piani obliqui, il cui punto di tangenza – quasi un corto
circuito concettuale – si situa proprio alla fine del romanzo, quando lo
scrittore getta la penna, il lettore chiude il libro, e il meraviglioso mondo
di carta rappresentato al suo interno cessa fatalmente di esistere5.
Ma allora è stato tutto inutile? No, perché da questa irrimediabile fine
sopravvive ciò che ne resta impresso nella memoria, scopo ultimo e sigillo
dell’intero lavoro letterario. Così come resta impresso nella memoria questo
indiscutibile capolavoro intitolato Cent’anni
di solitudine.
Nella
stanzetta appartata, dove non era mai arrivato il vento arido, né la polvere,
né il caldo, entrambi si ricordavano della visione atavica di un vecchio col
cappello ad ali di corvo che parlava del mondo dando di spalle alla finestra,
molti anni prima che loro nascessero. Ambedue scoprirono che lì era sempre
marzo e sempre lunedì, e allora capirono che José Arcadio Buendía non era così
pazzo come raccontava la famiglia, ma che era invece l’unico provvisto di
sufficiente saggezza da intravedere la verità che anche il tempo subiva
inciampi e incidenti, e poteva pertanto scheggiarsi e lasciare in una stanza
una frazione eternizzata.
(Pag. 317)
Note
1
Alessandro
Baricco, Senza terminare di terminarsi
mai, in AA. VV., Il romanzo. Lezioni,
a cura di F. Moretti, P. V. Mengaldo e E. Franco, Einaudi, Torino, 2003, pagg.
592-3.
2
Cesare
Segre, Introduzione, in G. García
Márquez, Opere Narrative, volume
primo, Mondadori, Milano, 1987, p. XIII.
3
Fulvia
Bardelli, Il privilegio della memoria,
in AA. VV., Gabriel García Márquez, a
cura di P. L. Crovetto, Tilgher, Genova, 1979.
4
Interessante
a tal proposito una dichiarazione dello stesso García Márquez sugli scrittori
latino-americani autori di romanzi sociali e di denuncia: “Il grande paradosso degli scrittori che con molta buona fede hanno
voluto esprimere il terribile dramma politico e sociale delle nostre masse, e
nient’altro che quello, è che sono diventati gli scrittori più minoritari del
mondo: nessuno li legge... Io penso che il nostro contributo perché l’America
latina abbia una vita migliore non sarà più efficace se scriviamo romanzi
benintenzionati che nessuno legge, ma lo sarà piuttosto se scriviamo buoni romanzi...
In breve, credo che il dovere rivoluzionario dello scrittore sia quello di
scrivere bene. Questo è il mio impegno” (Armando Durán, Conversaciones con
Gabriel García Márquez, in AA.VV., Sobra
García Márquez, Biblioteca de Marcha, Montevideo 1971, pag. 36).
5
Per
approfondire l’argomento, si raccomanda la lettura di Roberto Paoli, Invito alla lettura di
Gabriel García Márquez, Mursia, Milano, 1987, pagg. 162-163.
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