Titolo originale: The
Road
Anno di prima pubblicazione: 2006
Traduzione di Martina Testa
Voto: 9
Il veterano
Cormac McCarthy (classe 1933), celebrato autore americano noto anche per Non è un paese per vecchi (donde il
pluri-Oscar film dei fratelli Coen), con La
strada – da cui John Hillcoat ha trasposto un omonimo film (il titolo in
italiano non è stato tradotto ed è rimasto The
Road) tra l’altro molto bello – ha avuto anche lo soddisfazione di
aggiudicarsi il Pulitzer del 2007. Pulitzer più che meritato, direi. In uno
stile asciutto (fatto tra l’altro di periodi molto brevi e discorso diretto
libero, cioè riportato testuale ma senza virgolette) ma ricchissimo di dettagli
(la capacità di McCarthy di presentare descrizioni brevissime ma complete
andrebbe studiata nelle scuole di scrittura!), l’Autore ci guida lungo la
strada che un uomo e suo figlio, diretti verso i climi più docili del sud,
seguono in cerca di un’insperata salvezza. Dico che la salvezza è insperata
perché la loro situazione è più che disperata: il romanzo è ambientato, per
così dire, dopo la fine del mondo. Perché di questo si tratta: non sappiamo
cosa sia successo – la focalizzazione interna (ma in terza persona) non
consente al narratore di fornire in tal senso informazioni al lettore, e i
personaggi sembrano non saperlo o comunque non volerne parlare – ma il dato
inequivocabile è che il mondo è morto, livido, bruciato e freddo. In questo che
potremmo pensare essere un inverno nucleare, solo poche forme di vita
sopravvivono, e non sono rimasti che pochissimi uomini, senza più risorse né
alimentari né tecnologiche, se non qualche residuo del mondo che fu: le città
sono abbandonate da anni, il mare è un’immensa distesa di acqua sterile.
Dei pochi
uomini rimasti, alcuni vagano raminghi e solitari come i due protagonisti,
altri si sono organizzati in comuni più o meno civilizzate, altri si sono dati
addirittura al cannibalismo. Già, perché con la morte del mondo è scomparsa
anche ogni forma di stato: come anche in altri Autori (si pensi a Cecità di
Saramago), nell’anarchia l’uomo torna un essere primitivo.
Ma allora,
vista la lettura inequivocabilmente pessimista che McCarthy propone della
natura umana, cosa resta ai due protagonisti?, il cui nome di battesimo tra l’altro
non viene mai indicato (ed anche in questa assenza di nomi sta la
disumanizzazione della condizione dell’uomo). Be’, resta innanzitutto l’amore
reciproco. E resta anche, ricorsivo in tutto il testo, il senso del “fuoco da
portare”, cioè di quel qualcosa di umano che c’è in noi – non solo l’amore, ma
anche la conoscenza, il rispetto e tutto ciò che più in generale definisce il
concetto di umanità – che va tramandato ostinatamente, ad ogni costo, di
generazione in generazione. Questa sorta di darwinismo etico – sopravvivere affinché
si possano conferire contenuti etici alla futura evoluzione umana – è la molla
che spinge i protagonisti ad aggrapparsi cocciutamente all’esistenza.
Raccontata
così, la tristissima novella di McCarthy pare quasi un conte philosophique alla maniera di quelli scritti dai pensatori
illuministi (va citato allora almeno il Candido
di Voltaire), racconti cioè in cui l’Autore si serviva della trama per
propalare le proprie idee. In McCarthy però non è così, o almeno non è
solamente così: in La strada si
assiste anzitutto alla potente fantasia visionaria dell’Autore in piena azione,
in grado di sorreggere una trama serrata in cui si incastonano episodi
schiettamente d’avventura che non possono che eccitare il lettore. Con
stentorea forza evocatrice, McCarthy dà vita al suo mondo morto, partendo dalla
vicenda dei suoi personaggi per poi darle respiro universale, suggerendo
riflessioni in merito a temi escatologici come il significato dell’esistenza,
il rapporto tra gli uomini e, vivissimo in tutto in testo, un forte senso di
morte. Sì, direi che è proprio la presenza della morte, con tutto lo spaventoso
mistero che da essa emana, a pervadere queste pagine e a infondere nel lettore
quella sorta di bella inquietudine che solo i romanzi ben scritti riescono a
conferire.
Qualcosa lo
svegliò. Si girò su un fianco e tese l’orecchio. Alzò lentamente la testa, con
la pistola in mano. Abbassò gli occhi sul bambino e quando tornò a guardare
verso la strada già si vedevano arrivare i primi. Oddio, mormorò. Allungò il
braccio e scrollò il bambino senza distogliere gli occhi dalla strada.
Avanzavano strusciando i piedi nella cenere e dondolando le teste
incappucciate. Alcuni portavano maschere antigas. Uno aveva una tuta
antiradiazioni. Macchiata e lurida. Camminavano ingobbiti con delle mazze in
mano, dei pezzi di tubo. Tossivano. Poi su una strada dietro di loro si sentì
il quello che sembrava un camioncino diesel. Presto, bisbigliò. Presto. Si
infilò la pistola alla cintura, afferrò la mano del bambino e trascinò il
carrello in mezzo agli alberi, lasciandolo coricato in un punto dove non era
facile vederlo. Il bambino era impietrito dalla paura. Lo strinse a sé. Stai
tranquillo, disse. Adesso dobbiamo scappare. Non ti voltare. Andiamo.
(pag. 47)
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