Ingvar Ambjørsen,
Storia di Elling, Pisani, Isola del Liri, 2007, pagg. 225
Titolo originale: Fugledansen
Anno di prima pubblicazione: 1995
Traduzione di Lucia Barni
Voto: 8,5
Abbiamo
parlato qualche mese fa dell’interessante film norvegese Elling diretto da Petter Næss: vale la pena parlare anche dei romanzi
di Ingvar Ambjørsen che hanno ispirato questo film. In realtà, Elling è tratto
prevalentemente da Fratelli di sangue, il secondo romanzo della saga di Elling
(che di tomi ne conta quattro, anche se in italiano, a quel che so, sono stati
tradotti solo i primi due); il primo, cioè questo Storia di Elling di cui parliamo oggi (ma presto parleremo anche di
Fratelli di sangue), non è entrato a
far parte della trama del film se non per un paio di scene iniziali, ma non per
questo merita di essere trascurato.
Storia di Elling, pubblicato in Norvegia nel 1995, è
in buona sostanza l’antefatto della saga: tratta di Elling che, in seguito ad
un crollo nervoso conseguente alla morte della madre cui era legato da un
rapporto tanto affettuoso da essere ai limiti del morboso, viene ricoverato
(viene fatto ricoverare obtorto collo,
per essere più precisi) in una clinica psichiatrica, dove alloggia con l’enorme
Kjell Bjarne di cui, nonostante una pronunciata diffidenza iniziale, diventerà grande
amico (ma il ruolo di Kjell Bjarne in questo romanzo è ancora piuttosto
marginale). La parte più cospicua del romanzo è però quella centrale, che è una
lunga digressione (un flashback o un’analessi, direbbero gli esperti) che
racconta una vacanza di Elling con la madre, fatta nella località spagnola di
Benidorm poco prima che lei morisse. È un episodio di pochi giorni,
apparentemente secondario (solo apparentemente), che però viene raccontato con
molta acribia perché, pur nel suo piccolo, ha fondamentale importanza per
capire Elling e la sua vicenda: in questa vacanza praticamente niente va per il
verso giusto...
Sia nei
capitoli ambientati nella critica che in quegli spagnoli, rifulge il
particolarissimo modo di raccontare di Ambjørsen, una sorta di flusso di
coscienza molto rigoroso e controllato – assai lontano dagli sperimentalismi
joyciani, per intendersi: Ambjørsen non ha alcuna velleità di rottura formale,
la sua attenzione è tutta sul piano dei contenuti – in grado di fare entrare il
lettore con immediatezza dentro i
pensieri di Elling.
Solo che
entrare dentro i pensieri di Elling è un’esperienza tutt’altro che banale: dire
che Elling è “matto” è sicuramente un eccesso, tuttavia è chiaro che Elling ha
grossi problemi psicologici se non psichiatrici, non così grossi da essere
insormontabili, ma così importanti da richiedere l’intervento degli specialisti
della clinica in cui viene ricoverato. E l’Autore, con una sensibilità
tipicamente scandinava e molto norvegese (i punti di contatto di Ambjørsen col
conterraneo Erlend Loe sono molteplici; Loe è di una decina di anni più giovane
ma il suo libro più affine alla saga di Elling, Naif.Super è uscito nel 1996, solo un anno dopo il romanzo di cui
stiamo parlando oggi), riesce a trasmettere al lettore tutto il disagio di
Elling senza perbenismi né reticenze, anzi in modo diretto e schietto, ma anche
con grande sensibilità e delicatezza. Se si ride in questo romanzo, e si ride
(anche), non si ride di Elling, ma con Elling. Non c’è mai derisione, anzi
il modo di Ambjørsen nel trattare la materia fa sì che i problemi di Elling
vengano fuori per quello che sono: non la pazzia di una mente malata in modo
irrecuperabile, bensì problemi comuni con cui tutti abbiamo a che fare, nessuno
escluso. Le debolezze di Elling sono comuni: in lui sono esasperate e lui a un
certo punto non ha più la forza per farvi fronte, però sono comuni.
Ecco il vero
punto di forza di questo romanzo: se talvolta leggendo un libro si ha l’impressione
che sia il libro a leggere il lettore, a raccontarlo a lui stesso come se fosse
uno specchio di carta, Storia di Elling
fa di questa caratteristica la sua straordinaria forza: Elling – col suo
rapporto intenso con la madre, con il suo disagio verso gli altri, le sue difficoltà
con le donne, i suoi sogni così vivi e così irrealizzabili, i suoi eccessi e i
suoi crolli – è un po’ in tutti noi. Il male di vivere non come vicolo cieco
dell’esistenza, ma condizione umana contro cui fare fronte comune.
Ambjørsen è
anche magistrale nel rappresentare le “alienazioni” di Elling, quel processo
per cui il personaggio parte da uno spunto di realtà per costruirci sopra una
realtà alternativa tutta sua, che talvolta è migliore (come i sogni amorosi) e
talvolta è peggiore (come le paure di essere aggredito), ma è comunque più
controllabile perché meglio conoscibile, più semplice da affrontare perché
vincolata dai parametri logici che lo stesso Elling le impone creandola. La
realtà però è un rompicapo ben più insolubile, ed è con essa che Elling deve
fare i conti per non uscirne annientato, come a un certo punto sembra
inevitabile che avvenga. Ma si può venire a capo di tutto, accettando se stessi
per come si è ma al tempo stesso lavorando su se stessi per armonizzare il rapporto
con gli altri, affinché tra l’io e il resto non si formi un muro. Perché i
problemi psicologici esistono, ma si possono – si devono – anche risolvere.
Storia di Elling non sarà una pietra miliare della
letteratura contemporanea ma in patria ha goduto di un ottimo, e meritato,
successo proprio per la capacità di unire leggerezza e profondità nel trattare
un tema così importante e delicato. Bisogna ringraziare quindi la Pisani, una
piccola casa editrice del frusinate che col suo lavoro ha reso disponibile in
Italia questo interessante romanzo. Si merita un plauso: l’edizione ha qualche
piccola sbavatura, ma non importa, pubblicare questo romanzo è un’opera così
meritoria che si può certo perdonare qualche isolata trascuratezza.
Quando io e
mamma ci avvicinammo, una persona si separò dalla massa per venire verso di noi
con il sorriso più ampio che avessi visto quel mattino. Una donna molto
abbondante, per utilizzare un’espressione un po’ cauta. Radiosa di gioia, ci
raccontò di essere la nostra accompagnatrice e di chiamarsi Grete Iversen. C’era
entusiasmo in tutto ciò che diceva e faceva. un entusiasmo che mi rese
profondamente scettico nei confronti sia di quella donna che di quello che
eventualmente si poteva pensare che rappresentasse. Quando delle persone che
non hai mai visto, di cui non hai mai sentito parlare, si comportano come se
avessero pazientemente aspettato te e tua mamma fuori dalla stazione di Oslo
per una vita intera, da qualche parte si accende una lucina rossa. Almeno per
me. Il falso interesse di Grete Iversen per me e mamma, già, tutta la sua
grassa immagine, mi ripugnava nel profondo, inoltre c’erano peli di cane sul
suo poncho rosso. Se la mia supposizione non era molto sbagliata, gestiva un
allevamento di pastori tedeschi da qualche parte nella zona di Hobøl, oltre all’attività
di accompagnatrice turistica. Insieme a suo marito. O compagno – doveva essere
più nel suo stile. Si chiamava Frank, mi immaginai, un cane magro e foruncoloso
che si inseriva naturalmente tra gli altri nel recinto. Cosa ci vedeva in Grete
Iversen, quel budino ridente? E cosa ci vedeva lei in Frank Hansen? Un
imbecille d’un uomo, un garzone di fattoria non pagato che spalava escrementi
di cane giorno dopo giorno per tutto l’anno, un uomo adulto che in volto
mostrava tutta la sua pubertà. La loro convivenza contemplava anche la
sessualità? Non riuscivo a concepire come qualcuno dei due ne avesse il
coraggio.
(pagg. 100-1)
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