Mikael Niemi,
L’uomo che morì come un salmone, Iperborea, Milano, 2011, pagg.
Titolo originale: Mannem
som dog som em lax
Anno di prima pubblicazione: 2006
Traduzione di: Laura Cangemi
Voto: 7
Su
Saturno, l’inserto culturale di Il fatto quotidiano del 30 settembre
scorso, viene segnalato, tra i libri “da evitare”, Lo scalpellino di Camilla Läkberg (Marsilio), in quanto “è proprio
il solito giallo svedese”. Non ho letto nulla della Läkberg, quindi non so dire
se nel merito quelli di Saturno hanno
ragione, però su un piano generale quelle scarne parole fanno luce su un
problema letterario molto attuale: l’inflazione di gialli che stanno arrivando
dalla Scandinavia, e in particolar modo dalla Svezia, inizia a stancare. Ormai
tutti questi gialli del nord, nel giro di pochissimo tempo, son passati dall’essere
un interessantissimo fenomeno letterario mondiale al diventare un cliché trito
ripetitivo e poco stimolante. E il problema è più grave di quanto si possa
pensare, e porta con sé due aspetti da non trascurare. Il primo è che in questa
valanga di noir tutti uguali e stancamente adagiati su un modello ormai
canonico si rischia di perdere di vista anche quelli che invece hanno un grande
valore intrinseco e son di livello superiore. Il secondo è che puntando troppo sui gialli si snaturano la
qualità e la vocazione della letteratura svedese contemporanea che – si noti
bene – è invece una grandissima scuola, fatta di autori di caratura mondiale e
di testi eccellenti, spesso non facili e lontani dalla natura “pop” dei gialli (per fare solo un esempio, citiamo il già recensito La biblioteca del Capitano Nemo di Per Olov Enquist).
I gialli vanno benissimo e non voglio certo demonizzarli: temo solo che il loro
successo possa offuscare altri grandi voci della narrativa nordeuropea.
Ed
eccoci a L’uomo che morì come un salmone di
Mikael Niemi: per fare un esempio di “snaturamento” della scuola narrativa
svedese, questo romanzo capita veramente a proposito. Abbiamo appena parlato
dei grandi autori della scuola scandinava: Mikael Niemi è sicuramente uno di
questi. Il suo Musica rock da Vittula
(2000) è uno dei romanzi migliori degli ultimi anni, libro di culto in patria
molto noto anche all’estero; anche Il
manifesto dei cosmonisti (2004), testo più anomalo e del tutto differente
dall’altro, è di ottimo livello. In entrambi i lavori rifulge la qualità
narrativa di un autore dalla grande penna in grado di affrontare temi
esistenziali impegnativi e dolorosi con un tono sobrio e anzi spesso
addirittura ironico che rende la lettura piacevolissima. Insomma, un vero e
proprio maestro del racconto.
E
perché Niemi (con questo lavoro uscito in traduzione da noi solo ora, ma edito
in patria nel 2006) si è cimentato con un giallo? È forse la sua volontà di
cavalcare la moda del momento e arrivare ad una maggiore fama? O – peggio – è una
“idea” della sua casa editrice (la Norstedts di Stoccolma) di associare un
autore già di successo ad un genere di successo per ottenere vendite da
capogiro? Non so dire. Fatto sta che l’innesto – cioè l’inserimento nella penna
di Niemi di un genere che non sembra appartenergli – non pare dei più felici.
Questo
senza nulla togliere all’arte di Niemi che, anzi, come a sopperire sulle
mancanze della trama, dà mostra ancora una volta di una capacità scrittoria non
comune, sfoggiando uno stile eccezionale che gira a meraviglia, con grande
ritmo e assolute abilità narrative. È la trama invece ad impiastricciarsi in
uno svolgimento problematico e eccessivamente complicato. Niemi prova a
giocarsela sul terreno di un giallo sui
generis che affronta – come in Musica
rock da Vittula – i problemi del suo Tornedal, la regione del nord della
Svezia di cui egli è nativo. Siamo in Svezia, ma si parla una varietà di
finlandese, e l’indagine per delitto da “solito giallo svedese” si trasforma in
un’indagine storica e soprattutto linguistica della zona, con excursus di sicuro interesse. Parlando
di un giallo “poco giallo” interessato alle questioni linguistiche, viene da
pensare a Quer pasticciaccio brutto de via
Merulana di Gadda, ma le affinità finiscono qui, anzitutto perché Gadda è
più mosso da interessi metalinguistici che linguistico-antropologici come
Niemi, e non ha alcuna attenzione all’aspetto poliziesco della sua storia (che
infatti resta sospesa), mentre Niemi il suo giallo prova comunque a portarlo a
compimento. Ma la struttura si tiene male in piedi. Gira tutto in questo
romanzo, le singole scene sono spesso magnifiche, e lo stile è eccelso; è il
sistema complessivo della trama che si segue con difficoltà, come se l’Autore
avesse difficoltà a gestirlo nel suo insieme, e si perdesse un po’ lungo la
via. L’abilità per rendere leggibile il libro fino alla fine, suscitando
interesse in più di un punto, Niemi ce l’ha; ma ce l’ha anche per fare romanzi sicuramente
molto migliori di questo.
“Finlandesi!”
esclama. “Con questo trattato di pace alla Corona svedese viene sottratto un
terzo del suo territorio, e la Svezia perde per sempre la fiera nazione
finlandese, il suo sostegno più forte. E non basta: all’esercito svedese verrà
a mancare il nucleo e la parte più significativa della propria potenza bellica.
La madrepatria è distrutta, sprofondata nel dolore e nello sconforto per gli
insostituibili sacrifici sopportati” […]
Sì, ai
soldati finlandesi furono indirizzate molte parole affettuose. Della lingua
finlandese, invece, non si disse nulla. Neanche dei tornedaliani lassù al nord,
che erano stati tagliati a metà in due popoli. Sarebbe accaduto dopo, molto
dopo. Doveva passare un lungo arco di tempo prima che cominciassero a rappresentare
un problema.
(pagg. 203-4)
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