Cose
dell’altro mondo (2011)
Regia:
Francesco Patierno
Con:
Diego Abatantuono, Valentina Lodovini, Valerio Mastandrea
Voto:
7,5
L’idea
non è nuova, anzi il debito di ispirazione dovuto a Un giorno senza messicani (pellicola del 2004 del cineasta, per
l’appunto messicano, Sergio Arau) viene dichiarato onestamente sin dai titoli
di apertura. Al di là di questo, resta comunque il fatto che è la scottante
attualità del tema portante di Cose
dell’altro mondo a renderlo estremamente interessante e, per così dire,
utile – d’altronde, uno dei ruoli dell’arte è sicuramente quello di indurre
alla riflessione, visto che, come dice testualmente Martha C. Nussbaum nel suo
ultimo lavoro, “La conoscenza non è
garanzia di buon comportamento, ma l’ignoranza lo è quasi certamente di uno
cattivo” (da Non per profitto - Perché le democrazie hanno bisogno della cultura
umanistica, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 96). Il film insomma prende spunto
da questa semplice domanda: cosa succederebbe se – come molti
incomprensibilmente si augurano – dalle nostre città sparissero tutti gli extracomunitari? Sarebbe un
disastro, è ovvio, la nostra economia si bloccherebbe e noi autoctoni
“superstiti” non sapremmo come fare ad andare avanti senza i tanto bistrattati
stranieri. Il film di Francesco Patierno proprio tutto questo mette in scena,
un paese del nordest da dove in una notte di tempesta spariscono nel nulla
tutti gli extracomunitari, ma la rappresentazione filmica non si ferma all’impatto
economico di una simile evenienza, ma va ben oltre. Già, perché gli stranieri
non sono solo operai, raccoglitori di pomodori, badanti e prostitute (anche
queste ultime, come si vede nel film, hanno una loro “utilità sociale”), ma
sono anche amici, fidanzati, amanti e coniugi di molti autoctoni. Ed è forse
qui che si può cogliere il lato migliore del film, nel tentativo cioè di
cogliere l’aspetto umano della vicenda, proponendo una seria riflessione sul
fatto che tutti quegli stranieri che spesso vengono facilmente insultati – se
non addirittura segregati in centri che sembrano lager – altro non sono che
persone, esseri umani come noi, tali e quali a noi.
Insomma,
nell’Italia di oggi, che pare sempre troppo esposta al rischio di un nefasto
scivolamento nel razzismo anche (e talvolta soprattutto) a livello
istituzionale, un film del genere era quasi necessario, e suona come un
doveroso richiamo all’ordine per tutti coloro che da queste istanze neorazziste
tendono a farsi sedurre. Esponenti della Lega Nord – dicendo queste cose senza
neanche sapere di cosa parlassero, come spesso capita loro – han sostenuto che
questo film fosse contro il Veneto, dove si capisce (soprattutto dal dialetto)
che la storia è ambientata. Non è certo così, ed anzi la profonda umanità che
scaturisce dal dolore degli italiani rimasti senza stranieri non può che essere
ritenuta come un elemento positivo nella delineazione dell’ambientazione. Non è
un film contro il Veneto, né tout court
neanche contro la Lega: è semplicemente un film contro il razzismo, e sarà pure
consentito (ed è anzi encomiabile) fare un film contro il razzismo. Se poi,
quando si parla di razzismo, ai leghisti fischiano le orecchie, non è un
problema di chi fa il film, ma dei leghisti. È solo questione di civiltà.
Detto
questo, non taccio sul fatto che il film poteva anche riuscire meglio. Non è un
brutto lavoro, però stenta un po’ a decollare e a strutturare con organicità la
propria trama, che talvolta finisce con l’essere un po’ stilizzata, e allo
stesso modo alcuni dei personaggi risultano un po’ abbozzati (soprattutto il pur
bravo Valerio Mastandrea si trova
nei panni di un poliziotto talvolta macho talvolta “tenerone” la cui
costruzione riesce vagamente arruffata). Ma, come detto, più che alla narrazione
in sé Patierno mira alla potenza descrittiva della storia, a svilupparla cioè
non in quanto tale ma in quanto vicenda umana: penso che sia per questo che
talvolta la macchina narrativa si inceppa un po’. Il film parte come una
commedia (e l’interpretazione di Diego
Abatantuono, professionale come sempre, spinge in questa direzione) ma si
colora pian piano di dramma, un dramma agrodolce dove non mancano i momenti in
cui si sorride, ma con amarezza. In tal senso, le scene che meglio funzionano
sono quelle in cui sono presenti i bambini (e la splendida Valentina Lodovini ben figura nel ruolo di maestra), e credo che
anche questa sia una precisa scelta registica: i bambini, che saranno gli
uomini del futuro, più degli altri pagheranno i conti per gli errori che noi adulti
facciamo oggi, e quindi, se capitasse una cosa come quella descritta nel film,
sarebbero i più colpiti; d’altra parte, i bambini meno degli adulti avvertono tendenze
razzistiche, non hanno problemi ad avere amici “diversi” (molto forte, e
volutamente strappalacrime, la scena del bambino nero che si sparge il gesso in
viso per diventare bianco), ed anzi soffrono per la loro sparizione. Il futuro sarà
loro, ed in tal senso sembra in buone mani. Meno buone sembrano le mani dei “grandi”
che lo gestiscono oggi. Che però, almeno nel film, imparano la lezione. Tant’è
che una delle scene finali della pellicola inscena una sorta di rito laico
cittadino in cui si prega per il ritorno degli extracomunitari e tutti, anche i
più razzisti, si pentono del proprio odio: «Perdonaci per aver confuso la
povertà con la delinquenza», dice (più o meno) l’officiante. È solo un film, ma
si spera che anche i razzisti “veri”, cioè quelli che esistono realmente al di
fuori della pellicola, tirino le medesime conclusioni.
Diego Abatantuono in una scena del film
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