Bruce Springsteen, The Rising (2002)
Tracklist:
1. Lonesome Day – 2. Into the Fire – 3. Waitin’ On a Sunny Day – 4. Nothing Man – 5. Countin’ On a Miracle – 6. Empty
Sky – 7.Worlds Apart – 8. Let’s Be Friends (Skin to Skin) – 9. Further On (Up
the Road) – 10. The Fuse – 11. Mary’s Place – 12. You’re Missing – 13. The
Rising – 14. Paradise – 15. My City of Ruins
Voto:
9,5
Qualche
giorno dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il cui decennale è passato da un
paio di settimane, si racconta che un ragazzo in macchina, che mentre stava
guidando riconobbe Bruce Springsteen che passeggiava per strada, gridò al Boss,
semplicemente: «We need you!» –
abbiamo bisogno di te. Erano giorni difficili per gli Stati Uniti, e sono stati
difficili pure gli anni a venire (e il trauma non è passato del tutto neanche
oggi), e nei momenti in cui è una nazione intera ad essere sotto shock una
delle poche cose che può dare consolazione è appigliarsi a figure di
riferimento, a persone la cui arte è in grado di smuovere i sentimenti più
profondi. E Bruce Springsteen, che di questa ridotta schiera di persone in
grado di consolare e spronare i popoli fa parte, rispose all’appello. E lo fece
in grandissimo stile, dando alle stampe, di lì a meno di un anno (l’album uscì
nel luglio del 2002), uno dei suoi migliori lavori di sempre, The Rising.
Per
un ritorno in così grande stile, bisognava fare le cose in grande. Anzitutto,
il Boss riunì attorno a sé l’E-Street Band, con la quale ufficialmente non
collaborava sin dai tempi di Born in the
U.S.A., cioè dal 1984 (in realtà aveva continuato a collaborare con molti
membri del gruppo, ma sotto il marchio E-Street non erano più stati fatti album
di inediti). Ma i nove membri della E-Street (Boss compreso) non bastano per un
album così monumentale, così all’occorrenza vennero chiamati musicisti
aggiuntivi a suonare qua e là nei brani di The
Rising, per un totale (se non ho fatto male i conti) di cinquantuno
musicisti coinvolti nelle registrazioni dell’album.
Ma
poi, come sempre (e in particolar modo con Bruce Springsteen), la cosa più
importante sono le canzoni. E il Boss non si tira indietro, proponendo la
bellezza di quindici inediti, tutti che vertono attorno al tema dell’attentato
dell’11 settembre ma soprattutto di ciò che ne seguì, cioè il dolore e lo
smarrimento, ma anche la forza di ripartire, donde appunto il nome dell’album, The Rising, la rinascita.
Si
parte forte, con Lonesome Day,
giorno solitario perché tutti in America, e non solo lì, quel giorno si son
sentiti soli e impotenti. “Better ask questions before you shoot”, avverte forse il verso più importante del
pezzo, un messaggio valido sia per i terroristi che per gli americani, ammoniti
dal Boss che la sola vendetta cruenta non avrebbe portato da nessuna parte
(Springsteen è sempre stato un acerrimo avversario di Bush: col senno di poi,
aveva ragione il Boss). Con Into the
Fire, struggente ballad in memoria dei vigili del fuoco morti l’11
settembre, l’album è già nel vivo, con una sorta di preghiera laica in nome di
chi, per salvare gli altri, perse la vita al World Trade Center (“May your
strength give us strength / May your faith give us faith / May your hope give
us hope / May your love give us love”).
È proprio questo, in netta armonia con la poetica
springsteeniana, il cardine con cui il Boss racconta l’11 settembre: il punto
di vista della gente comune. Quello è il nodo in cui si declinano le canzoni
più disperate (Empty Sky, Nothing Man, The Fuse, You’re Missing),
quelle di speranza (come Waitin’ On a
Sunny Day e Countin’ On a Miracle,
quasi due canzoni “gemelle”, e Mary’s
Place) e pure quelle in cui si auspica un futuro di reciproca
intercomprensione tra i popoli (come Let’s
Be Friends e la ottima Worlds
Apart, non a caso arrangiata con sonorità tribali, è emblematica in tal
senso: la scelta di far suonare le quindici canzoni in stili diversi è in
generale specchio della volontà di un album “universale”, la cui musica possa
raccogliere il mondo intero in un singolo e comune messaggio di pace). In
realtà, tutte le canzoni dell’album partono dall’11 settembre per arrivare a
riflessioni più generali sull’uomo, la sua debolezza nei momenti difficili, ma
anche la sua capacità di trovare poi la forza di rialzarsi.
Il finale del cd regala altre due perle. La prima è
la title-track The Rising attorno
alla quale si coagulano tutti i segnali di speranza presenti nell’album, in un’esplosione
di gioia che il canto di chi, curatosi le ferite, non dimentica il male subito
ma capisce di essere stato in grado di superarlo (è il brano che poi il Boss
avrebbe cantato a Washington per festeggiare la vittoria alle elezioni di
Barack Obama, da lui sostenuto con tutte le forze: questa storica esibizione
rafforza ancora di più il messaggio della canzone). La seconda – che chiude l’album
– è la struggente My City of Ruins,
brano scritto già attorno al 2000 e poi riadattato dopo l’11 settembre (la
prima esibizione col testo nuovo risale già al 21 settembre 2001, allorché il
Boss presentò il brano al concerto “America: A Tribute to Heroes”, in cui
ventuno artisti internazionali di prim’ordine allestirono una serata musicale
di cordoglio per le vittime degli attentati e di raccolta fondi per i loro
parenti: a chi la sentì allora, in quell’occasione così particolare, il brano
non può che suscitare emozioni molto forti).
In tutto questo, ça
va sans dire, The Rising è anche molto bello. Su quindici
canzoni, si fatica a trovarne una che non funziona. La produzione è stata
affidata ad un professionista di razza come Brendan O’Brien (che lavorava col
Boss per la prima ma non ultima volta), e il disco non stanca mai nonostante
sia molto lungo. Qualche imperfezione qua e là può essere rinvenuta, ma deve
essere stata dettata dalla furia di registrare (di fatto, è stato un instant-record)
e si tratta di piccolissimi dettagli assolutamente perdonabili.
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