Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, Milano, 1989, pagg. 195
Titolo originale: Fahrenheit
451
Anno di prima pubblicazione: 1953
Traduzione di Giorgio Monicelli
Voto: 9
Perché
si scrivono romanzi? Voglio dire, scrivere un romanzo è una fatica, possono
servire anche anni, perché allora non dedicarsi ad altro? Questa, chiaramente
(e volutamente), è una domanda sciocca, veramente sciocca, e come tutte le
domande veramente sciocche non meriterebbe una risposta, perché risposte non ce
ne sono, o sono infinite. Ma volendo per forza abbozzare una risposta, non la risposta ma solo una delle tante possibili,
possiamo dire che i romanzieri scrivono tra l’altro per parlare dell’uomo,
della sua condizione, del suo passato come del suo futuro. E perché, per
parlare dell’uomo, gli artisti si mettono a scrivere romanzi e non, per dire,
trattati di antropologia. Be’, la risposta non sta solo nel fatto che essi,
essendo artisti, sono più bravi nei romanzi che nei saggi. E non sta nemmeno
nella constatazione che spesso un romanzo è più bello, o comunque più appetibile, di un saggio, e come tale più
facilmente leggibile dai lettori. No, non è solo questo. È che il romanzo, un
po’ come l’arte in generale, dicendo le cose de relato, ossia non direttamente come in un saggio ma in modo
allusivo e allegorico attraverso una storia narrata, che spesso è pure un parto
della fantasia, riesce a dire le cose se non meglio almeno più a profondo, in modo più intimo, di un trattato
scientifico. Questo perché l’arte immerge in quel che racconta, inventa una
storia nella quale ci perdiamo ma al tempo stesso realizziamo lucidamente che
quella storia è la nostra storia, che
ci racconta qualcosa della nostra vita, di quello che siamo e quello che
potremmo essere, più di molti pensieri astratti. È un po’ come nella poesia, o
perlomeno nella grande poesia: ci sono versi che in poche parole racchiudono
pagine e pagine di spiegazioni e insegnamenti, emozioni e verità, che pure in
nessun altro modo se non con quelle poche parole scelte il poeta sarebbe
riuscito a veicolare con altrettanta profondità, nemmeno con un saggio di mille
pagine. E lo stesso vale coi romanzi: una storia di fantasia che ci racconta
sulla verità molte più cose di saggi e trattati. Poi, chiaramente, da autore ad
autore le cose cambiano, ci sono autori più “cerebrali” che trascurano la trama
per approfondire le disquisizioni teoriche, ci sono scrittori più “commerciali”
che puntano tutto su una storia accattivante e si occupano poco del resto; ma
ci sono anche scrittori in grado di bilanciare con armonia i due elementi.
Questo
– armonia tra i due elementi appena esposti – è tra le altre cose Fahrenheit 491, opera massima di Ray
Bradbury cui, anche in virtù della recente scomparsa, vorrei dedicare questo
piccolo “pensierino”. Bradbury scriveva fantascienza e Fahrenheit 491 è un romanzo di fantascienza, nessun dubbio a
proposito. Eppure, la grandezza di Bradbury in questo testo sta proprio
nell’usare la fantascienza e andarne oltre, riprenderne gli stilemi – come
l’ipertecnologico mondo del futuro – ma anche “alleggerirne” le peculiarità,
sottraendolo alla fruizione esclusiva dello zoccolo duro (e numeroso) di
appassionati della cosiddetta sci-fi per creare un’opera di respiro più ampio
che non abbia senso solo come “opera di genere” ma che, tutt’altro, valga di
per sé, come opera di grande letteratura tout
court. Ecco allora che il mondo di Fahrenheit
si tinge di foschi colori distopici ed è un allarme che l’Autore lancia contro
tutti i dispotismi mostrandoci dove possono arrivare le loro conseguenze. Siamo
in un futuro alienato e alienante, un veloce mondo a tutta
televisione, dove il pensiero è una minaccia e i libri sono pericolosi, sono
anzi vietati e – ed è questa la grande intuizione icastica di Bradbury, tanto
famosa da essere ben presente anche a chi non ha letto il libro – i pompieri
hanno l’incarico di bruciare tutti i libri superstiti in un mondo che li ha
messi al bando. Scritto nel 1953, il romanzo ha da una parte una trama visionaria
che ne rende avvincente la lettura, da una parte una concretezza di riferimenti
che gli dà un grande spessore teorico e, per così dire, ammonitore. Contro ogni
totalitarismo e in difesa di quel grandissimo capitale culturale che l’umanità
ha lasciato e lascia continuamente a se stessa costituito dai libri. Non siamo
lontanissimi da Orwell: 1984 è di
certo più completo e profondo, dall’impianto teorico robustissimo, Fahrenheit 491 è un po’ più attento ai
sobbalzi trama, ma resta ancora oggi un romanzo importante e imperdibile, il
lavoro più famoso di un ottimo scrittore di fantascienza, e non solo, quale
Bradbury fu.
«Mi
permettete una domanda? Da quanto tempo lavorate agli incendi?»
«Da
quando avevo vent’anni, dieci anni fa.»
«Non
leggete mai i libri che bruciate?»
Lui si
mise a ridere:
«Ma è
contro la legge!»
«Oh,
già, certo.»
«È un
bel lavoro, sapete. Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì
Melville, il venerdì Whitman, ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. È il
nostro motto ufficiale.»
Continuarono
a camminare e infine la ragazza domandò:
«È vero
che tanto tempo fa i vigili del fuoco spegnevano
gli incendi invece di appiccarli?»
«No, è
una leggenda. Le case sono sempre state antincendio, potete prendermi in
parola.»
«È
strano. Mi ricordo di aver sentito dire che molto, molto tempo fa le case
ardevano spesso per disgrazia e che occorrevano gli uomini del fuoco per domare le fiamme.»
Montag
si mise a ridere.
(pagg. 8-9)
Nessun commento:
Posta un commento