Paul Auster,
Follie di Brooklyn, Einaudi, Torino, 2007, pagg. 265
Titolo originale: The
Brooklyn Follies
Anno di prima pubblicazione: 2005
Traduzione di Massimo Bocchiola
Voto: 9,5
L’anziano
Nathan Glass, guarito da un tumore ma un po’ spossato dalla vita e dall’età,
torna nella natia Brooklyn per trovare un posto dove passare serenamente il
tempo della propria pensione e, soprattutto, altrettanto tranquillamente
morire. Non sarà accontentato, nel senso che, contrariamente alle proprie
velleità iniziali, gliene succederanno di tutti i colori e la sua vita, tra
nuovi incontri straordinari e disordinate storie familiari che presentano il
conto, incapperà in un imprevisto e insperato periodo di vivacità... La seconda
vita di Nat, che ambiva a scrivere il “Libro della follia umana”, in questa
follia si tuffa e ne esce rigenerata.
Il romanzo
di Paul Auster, che ha più di qualcosa in comune con alcuni film di Woody Allen
(immaginate Nat nei panni del Boris Yellnikoff di Basta che funzioni e ci
troverete molte affinità), non solo per anagrafe e ambientazioni (del resto i
due autori hanno parecchi “cromosomi biografici” in comune) ma anche per il
sottile cinismo che contrappunta le pagine del romanzo. È un cinismo umoristico
che dà al romanzo i tratti della commedia ma che funziona come un’arma a doppio
taglio, si incunea con leggerezza in sottotesti impegnativi e finisce con l’affrontare,
con leggerezza ma non con superficialità, temi ben più impegnativi. La follia
umana, che è appunto del libro tratto distintivo sin dal titolo, è scandagliata
attraverso la rappresentazione di una società americana letteralmente allo
sbando (e per lo più non una società di emarginati, ma – come in Pastorale americana di Roth, testo lontanissimo da questo più ad una prima impressione
che ad una lettura approfondita – una classe medio-alta, se non una vera e propria
upper class che “alibi economici” per
giustificare il proprio disagio non ne ha poi molti). Si tratta a dirla tutto
di uno sbando più psicologico che etico – piuttosto che la crudeltà, qua c’è il
fallimento.
L’Autore di
fronte a tutto questo tumultuoso materiale umano non si pone col piglio del
censore indignato, anzi la rappresentazione cinica ed onesta, pur nel suo
inflessibile non fare sconti a nessuno, non esprime una severa condanna,
lasciando che sia il racconto, nel suo avvincente svolgersi, a parlare al
lettore. Siamo un po’ tutti – Autore compreso, perché no? – sulla precaria
barca della follia umana, c’è poco da fare. Anzi: c’è poco da fare, ma qualcosa
c’è, ossia provare a ricomporre i cocci della propria esistenza quando le cose
sono andate per il verso male. Questo sì, si può – si deve – fare. E non si è
mai fuori tempo massimo, nemmeno se si è superata l’età della pensione. Non è
mai troppo tardi per salvarsi dall’inevitabile follia umana. O almeno per
provarci.
Provarci.
Perché poi sul risultato non ci sono garanzie. Conta per lo più la capacità di
tentare, la voglia di mettersi in gioco a costo di sporcarsi le mani. Conta
però anche il destino, nel suo implacabile fare e disfare, scomporre e
ricomporre i pezzi delle nostre storie. Un happy ending assoluto in queste
condizioni è quindi difficile, se non impossibile. A Nat stesso le cose vanno
come vanno. Il romanzo significativamente si conclude l’11 settembre 2001, le
cose sembrano andare bene ma manca soltanto un’ora a che la storia – e non solo
quella di Nat – cambi di colpo, per sempre.
Quando
Wittgenstein scrisse il suo Tractatus mentre
era soldato nella prima guerra mondiale, sentì di aver risolto tutti i problemi
della filosofia, e giudicò la sua esperienza di filosofo definitivamente
chiusa. Allora andò a fare il maestro elementare in un remoto villaggio di
montagna austriaco, ma non si rivelò adatto a quel lavoro. Severo, iracondo,
perfino brutale, sgridava i bambini di continuo, e quando non sapevano la
lezione li picchiava... non soltanto i soliti sculaccioni, ma botte sulla testa
e sul viso, furibonde percosse che ad alcuni bambini procurarono vere e proprie
ferite. La sua condotta censurabile si riseppe e Wittgenstein dovette dare le
dimissioni. Passarono gli anni – almeno venti. [...] Decise che l’unico modo [...]
era [...] chiedere umilmente perdono a chiunque avesse maltrattato o offeso. [...]
Ormai tutti i suoi ex scolari erano adulti, uomini e donne tra i venticinque e
i trent’anni; [...] non ce ne fu neanche uno, uomo o donna, disposto a
perdonarlo. Il dolore che aveva inferto era stato troppo profondo, e il loro
odio superava ogni possibile pietà.
(pagg. 53-54)
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