venerdì 8 aprile 2011

Mario Vargas Llosa - La zia Julia e lo scribacchino

Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino, Einaudi, Torino, 1994, pagg. 344
Titolo originale: La tía Julia y el escribidor
Anno di prima pubblicazione: 1977
Traduzione di Angelo Morino
Voto: 10


Una volta tanto, il Premio Nobel per la letteratura – l’ultimo, quello del 2010 – non ha destato particolari polemiche: Mario Vargas Llosa se l’è proprio meritato. La zia Julia e lo scribacchino, dicono i critici, fu il testo che (insieme all’ottimo Una pinta d’inchiostro irlandese di Flann O’Brien) ispirò il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore. In effetti, la filiazione pare evidente, specialmente considerando che, un po’ come sarà in Se una notte d’inverno, la struttura di La zia Julia alterna alla vicenda principale i racconti interrotti dello “scribacchino” Pedro Camacho, fantasmagorico autore di radio-romanzi. Diciamo meglio: la vicenda principale – che occupa i capitoli dispari – è quella di Mario, l’io narratore nonché protagonista di questa autobiografia giovanile, sospeso tra due amori, quello per la zia (non di sangue) Julia, che sposerà non senza scandali né problemi familiari, e la letteratura, rappresentata non solo dai continui tentativi di Mario di scrivere racconti, ma anche e soprattutto dallo stravagante e vulcanico Pedro Camacho, i cui radio-romanzi vengono riportati nei capitoli pari. Insomma, per dirla alla Joyce, l’autobiografia dell’artista da giovane si divide in due tronconi, quello storico-realistico – effettivamente Vargas Llosa sposò la zia Julia – e quello metafisico-fantasioso – Pedro Camacho è un personaggio inventato, e i suoi racconti sono frutto dell’abilità di Vargas Llosa che comunque avrà pescato di certo nel torbido della letteratura d’appendice latino-americana dell’epoca. Allora ci sono alcune cose da dire. Anzitutto, va notata l’abilità dell’Autore di modulare con disinvoltura e ironia i propri registri stilistici, assecondando il dettato poetico alle esigenze della narrazione principale come a quelle multiformi e cangianti delle varie novelle interrotte inserite. E poi c’è il tema della scrittura in sé: Calvino, intriso anche della lezione di Borges, è più attento ai temi meta-letterari; Vargas Llosa – che però è forse pure più bravo di Calvino, anche se in realtà i confronti tra i mostri della letteratura son sempre difficili da fare, e forse tanto vale farli finire sempre in pareggio – bada più al concreto, direi quasi al socio-politico, e denuncia la necessità che lo scrittore, per il bene della cultura che lo esprime e che egli rappresenta, sia un professionista. Cosa che all’epoca in Perù non era praticamente pensabile: «Quando ero giovane ero certo che sarei stato uno scrittore della domenica», ha dichiarato Vargas Llosa in una recente intervista (da Il venerdì di Repubblica, n. 1195, 3 dicembre 2010), «in America Latina non esistevano scrittori professionisti, l’unico era un autore di radio-teatro che ho descritto nel romanzo La zia Julia e lo scribacchino». Ecco perché Pedro Camacho è un modello affascinante: è pur sempre un professionista della scrittura. Affascinante ma negativo, tant’è che impazzisce e confonde vicende e personaggi dei racconti (e la lettura La zia Julia più va avanti più diventa una gustosa sfida a tenere il passo con gli “errori” di Camacho), e negativo perché è pur sempre un tipo di scrittura commerciale e popolare da appendice: il modello vero, sognato da Mario, è lo scrittore colto e preparato, “alla europea”, come Vargas Llosa diventerà fin tanto a conquistarsi il podio più ambito, quello del Nobel. Perché la cultura – e tra essa le lettere – non è un passatempo da mantenuti. È ciò che trasforma i sudditi in cittadini, i subordinati in uomini liberi. Ecco perché è necessaria. E perché libri come questo sono importanti da conoscere. Ma farlo non è certo un sacrificio: la lettura di La zia Julia e lo scribacchino è immensamente piacevole e divertente

Io le spiegai che l'amore non esisteva, che era un'invenzione di un italiano chiamato Petrarca e dei trovatori provenzali. Che quanto la gente credeva un cristallino fiotto dell'emozione, una pura effusione del sentimento era il desiderio istintivo dei gatti in calore celato dietro le belle parole e i miti della letteratura. Non credevo in nulla di tutto questo, ma volevo fare l'interessante. 
(pag. 12)

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