venerdì 15 giugno 2012

Erik Larson - Il giardino delle bestie


Erik Larson, Il giardino delle bestie, Neri Pozza, Vicenza, 2012, pagg. 559
Titolo originale: In the Garden of Beasts
Anno di prima pubblicazione: 2011
Traduzione di Raffaella Vitangeli
Voto: 8,5




In Misery, il celebre romanzo di Stephen King, Annie Wilkes sembra una pacata infermiera ma poi si rivela come una aguzzina matta e sadica. Quello che capita a Paul Sheldon in quel romanzo sembra capitare anche a William Dodd in questo Il giardino delle bestie di Erik Larson, con due differenze importante: la prima è che il professor Dodd scopre suo malgrado la vera natura folle non di una singola persona, ma di un intero popolo, quello tedesco negli anni ’30; la seconda è che la storia narrata da Larson non è inventata, bensì assolutamente vera. Infatti la vicenda di William Dodd, nominato nel 1934 ambasciatore americano in Germania e trasferitosi perciò a Berlino assieme alla famiglia (e soprattutto alla vivacissima figlia Martha) è un episodio storico realmente esistito che Larson ricostruisce in modo dettagliato e rigoroso.

Siamo di fronte allora ad un romanzo storico nel senso più estremo del termine. Se per romanzo storico si intende – e non penso alla deriva commerciale di storie inverosimili in un contesto vagamente storico, bensì al filone più rigoroso che da Walter Scott e Manzoni arriva fino ad oggi, con la scuola scandinava in primo piano (si pensi a Per Olov Enquist e Eyvind Johnson) – una storia verosimile narrata in un contesto storico reale, Larson fa un passo in più scegliendo che siano veri e documentati non solo il background della vicenda, ma anche la vicenda stessa. È insomma un lavoro di non fiction filologicamente rigoroso, tanto che di tutto ciò che viene scritto è fornita la fonte nelle corpose note a fine romanzo. In questo caso allora la narrativa si imparenta così approfonditamente con la storiografia da confondersi con essa, ma sempre di narrativa parlerei: pur essendo rigoroso come un saggio, Il giardino delle bestie non è un saggio in virtù del piglio impostogli dall’Autore, che, pur maneggiando una materia vera, si comporta più da narratore che da storiografo. Come dire: è una storia vera raccontata come se fosse inventata.

Un’operazione del genere – tenuto conto che alla trama l’Autore si vieta di aggiungere episodi inventati che la renderebbero più avvincente ma non più reale – può essere fatta solo da uno scrittore particolarmente dotato, altrimenti rischia di naufragare in una noia insormontabile. E Larson si rivela in tal senso Autore capace di una sfida tanto improba, e riesce nel duplice compito di scrivere un testo che sia al tempo stesso avvincente come un romanzo e interessante come uno studio storiografico. Il ritmo e l’avventura da una parte, la storia e i documenti dall’altra: il romanzo di Larson, pur nella sua lunghezza, supera la prova a pieni voti.

Certamente, i thriller di pura fiction, potendo attingere al serbatoio della fantasia di chi scrive, divertono di più. Tuttavia, ciò che il lavoro di Larson perde in divertimento viene compensato dall’interesse per quel che è raccontato. È infatti interessantissimo vedere come nel 1934 non ci fosse all’estero – e forse nemmeno in Germania – la consapevolezza di cosa fossero Hitler e il nazismo né di cosa essi avrebbero significato per le sorti dell’umanità. Un po’ perché capire era difficile, un po’ perché la Germania aveva un debito colossale con gli Stati Uniti e – quasi paradossalmente – osteggiarla apertamente poteva significare non riavere indietro quel denaro, un po’ perché l’antisemitismo non mancava neppure dall’altra parte dell’oceano, fatto sta che quasi nessuno aveva capito quello che stava accadendo. Dodd invece sì. Non da subito, però: arrivato lì da filotedesco (amava la Germania, dove aveva pure studiato), pian piano si rende conto, con sgomento, della verità fattuale che lo circonda. Prova a farlo capire al governo americano, e viene per lo più ignorato, tanto che finirà con l’avere il titolo – a suo modo riabilitante ma in fin dei conti poco consolatorio – di “Cassandra” dei funzionari americani. La stessa sua parabola, da filotedesca ad avversaria del nazismo, viene seguita dalla figlia Martha, che oltretutto è una figura complessa e caleidoscopica, vivacissima anche sessualmente e in grado di cacciarsi nelle situazioni più impensabili (tanto da venire pure contattata dallo spionaggio sovietico). Ecco perché Il giardino delle bestie è una lettura consigliabile, non solo perché è un romanzo ben scritto piacevole da leggere, ma anche perché propone un monito da non dimenticare: nessuna tirannide nasce apertamente tale, nessun tiranno andrà a dire apertamente da subito «Sono un tiranno», per cui chi sta scivolando dentro un regime spesso rischia di non accorgersene. Anzi, rischia di accorgersene solo quando è troppo tardi (e troppo pericoloso) per opporsi. E le poche cassandre che fiutano prima degli altri il pericolo spesso vengono per lo più inascoltate.

Hanfstaengl ricambiò la simpatia di Martha, pur non avendo una grande considerazione di suo padre. «Era un piccolo e modesto professore di storia che veniva dal Sud e dirigeva l’ambasciata con pochi spiccioli, cercando forse di mettere da parte qualcosa» scrisse Hanfstaengl nelle sue memorie. «In un’epoca in cui solo un miliardario poteva competere con il fasto nazista, Dodd si teneva nell’ombra come se fosse ancora all’università». Hanfstaengl lo chiamava con disprezzo “Papà Dodd”.
«La cosa migliore che possiede» scrisse Hanfstaengl «è la sua attraente figlia bionda, Martha, che posso dire di conoscere molto bene». Hanfstaengl la trovava affascinante, vivace; una donna con un innegabile appetito sessuale.
E questo gli suggerì un’idea.
(pag. 105)

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