venerdì 24 agosto 2012

Into The Wild - Nelle terre selvagge


Into The Wild - Nelle terre selvagge (2007)
Titolo originale: Into The Wild
Regia: Sean Penn
Con: Emile Hirsch
1 Golden Globe 2008 per la migliore canzone – Guaranteed di Eddie Vedder
Voto: 9,5




Cristopher, un giovane ragazzo statunitense in fuga dalla società – sotto lo pseudonimo di Alexander Supertramp – va in cerca della vera essenza del vivere umano, lontano dalle convenzioni del vivere moderno, in un lungo cammino on the road che dalla California lo porta alla meta da lui più ambita perché più selvaggia, l’Alaska. È difficile, a causa delle interessanti questioni che esso solleva, parlare di questo film senza anticiparne la trama. Per evitare “spoiler” – usiamo il nome che il popolo del web usa per definire le sgradite anticipazioni della trama –, a chi non ha ancora visto il film suggeriamo di leggere solo questo capoverso (ma poi tornate a leggerci dopo la visione!) in cui diciamo semplicemente che Into The Wild è un lavoro magnifico, di sublime realizzazione anche formale (una fotografia strepitosa, un montaggio brioso che rende snello una storia molto lunga raccontata senza fretta, per non parlare dell’ottima regia di Sean Penn nonché dell’eccelsa prova degli attori, il protagonista Emile Hirsch in testa), sostenuto da una colonna sonora sublime (con canzoni originali di Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam per l’occasione in versione solista, davvero azzeccate), ma intenso soprattutto per il sottotesto filosofico che la vicenda affronta. Un film da non perdere, non c’è che dire.

È dal decadentismo – e fors’anche da prima, se è vero che già l’Albatro di Baudelaire, tanto maestoso in volo quanto goffo a terra, affrontava a suo modo l’argomento – che l’arte ha messo a fuoco il problema della “sistemazione” dell’io all’interno della società, in una coperta sempre troppo corta in cui chi riesce a realizzarsi sul piano sociale fa fatica a trovare un senso esistenziale e al contrario chi punta sulla realizzazione di sé riesce a stento a trovare un adeguato collocamento nella società. È passato più di un secolo, l’umanità ha fatto passi in avanti in molte direzioni, ma di certo non in questa, ed anzi negli ultimi anni il problema sembra acuirsi invece che migliorare. E proprio qua sta il nocciolo di Into The Wild: in un’epoca, e in una nazione, che ha fatto dell’arrivismo e della realizzazione professionale l’unico mantra delle nostre esistenze, Alexander con la sua fuga nella “libertà estrema” restituisce all’individuo una dimensione umana con la quale misurarsi, un senso dell’esistenza dove i parametri non siano sociali ma naturali, come la felicità e il benessere. È chiaro che il senso della vita non può ridursi solo ad una laurea prestigiosa, un’occupazione che fornisca un salario elevato, uno status sociale di rilievo. Non può essere tutto qui. Come dicevamo, non è un tema nuovo all’arte – possiamo citare i soliti Pirandello e Salinger come esponenti di una ben più ampia scuola che rompe le catene dell’omologazione sociale che imprigionano l’uomo per far sì che egli torni a confrontarsi con istanze più “umane” a lui maggiormente congeniali – ma giova ricordarlo: che la società moderna, con la sua miope tirannia della realizzazione economica come unico scopo delle esistenze, “avveleni” l’individuo è l’intuizione di partenza di Alexander che credo non si possa discutere. Serve una disintossicazione: senza dubbio.

Purtroppo, però, il “piano di sabotaggio” di Alexander, sebbene sostenuto da ideali altissimi e assolutamente nobili, ha una grave falla. Sta nella sua scelta di una “fuga assoluta”, da tutto e da tutti, un’immersione panica nella natura per tornare a vivere solo di quanto essa offre, in un rinnegamento continuo di tutti i legami non solo già instaurati prima della partenza, ma anche di tutti quelli che si formano nel corso della sua lunga fuga. “Ti sbagli se pensi che le gioie della vita vengano soprattutto dai rapporti tra le persone”, dice Alexander a fine film, ed è forse questo l’errore esiziale: il suo abbaglio solipsistico ed egocentrico sta proprio nel non capire che non tutte le persone sono uguali, che ve ne sono alcune che non valgono poi molto e che meritano di essere lasciate al loro destino (come i genitori), altre invece (come la sorella, ma anche molte delle persone incontrate lungo il cammino into the wild) meritano ben più di un abbandono lacerante, perché non sono esse uno strumento provvisorio verso la fuga, bensì della stessa fuga sono l’obiettivo catartico. Se la società ammala come una pandemia, la disintossicazione non può essere solo un gesto individuale, perché in tal caso, ammesso che riesca, non cambierà il destino se non della persona che vi si cimenta; la disintossicazione deve essere invece un gesto collettivo, proposto e instaurato sì da colui che ne ha l’intuizione, ma condiviso poi con chi se lo merita. Le gioie della vita vengono soprattutto dai rapporti con le persone, come no: Alexander, che legge molto e tira sempre fuori citazioni molto interessanti, forse si è perso per strada un testo importante come La ginestra di Leopardi. Peccato: magari gli avrebbe potuto salvare la vita.

Se ammettiamo che l’essere umano possa essere governato dalla ragione, ci precludiamo la possibilità di vivere”, sostiene Alexander a metà film: nella sua brama di opporsi alla “miopia” della società, il ragazzo non si accorge di anteporle una filosofia troppo eccessivamente spinta all’eccesso, diciamo presbite; cioè guarda lontano, e non si accorge che la risposta che ha è vicino a sé, nelle persone che incontra e che gli darebbero le risposte che vorrebbe ascoltare, se solo riuscisse a sentirle. E così proprio lui, in fuga dai dolor che procura la società, finisce col diventare egli stesso, proprio tramite la fuga, causa di dolore delle persone che lungo il suo cammino a lui si affezionano, e che da lui avrebbero meritato di certo più attenzione e, perché no?, più amore.

Il drammatico epilogo, di questa storia così triste che piange il cuore a pensare che è tratta da una vicenda vera, scioglie tutto. Un banale avvelenamento, non già della società ma della natura (mai così leopardiana come in questo frangente!), un avvelenamento quasi innocuo se curato adeguatamente, lo uccide proprio perché, isolato com’è in mezzo all’Alaska, non ha nessuno cui rivolgersi per disintossicarsi. È il contrappasso: l’isolamento a lungo inseguito finisce con l’ucciderlo. Ed Alexander, che nell’ultima scritta lasciata ai posteri torna a firmarsi Cristopher, capisce non solo a fine film, ma a fine vita, quando ormai è ahimè troppo tardi, il senso della sua fuga e fors’anche dell’esistenza: la felicità è vera solo quando è condivisa. La fuga va bene, ma non può essere fine a se stessa. Peccato che abbia pagato con la morte questa intuizione a metà, peccato davvero. E, al di là degli indiscutibili meriti artistici, complimenti a chi ha voluto raccontarne la storia (non solo Sean Penn, ma anche John Kraukauer, lo scrittore che per primo si è interessato alla vicenda scrivendone un libro dal quale questo film è tratto) per consegnarcela come poetico monito per la vita che verrà.

Una delle tante splendide scene del film

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