venerdì 24 maggio 2013

Moby - Play

Moby, Play (1999)
Tracklist: 1. Honey – 2. Find My Baby – 3. Porcelain – 4. Why Does My Heart Feel So Bad? – 5. South Side – 6. Rushing – 7. Bodyrock – 8. Natural Blues – 9. Machete – 10. 7 – 11. Run On – 12. Down Slow – 13. If Thingh Were Perfect – 14. Everloving – 15. Inside – 16. Guitar Flute & String – 17. The Sky Is Broken – 18. My Weakness
Voto: 9



Chiunque di voi non avesse mai ascoltato l’album Play di Moby e oggi, dopo oltre dieci anni dalla sua uscita, decidesse di acquistarselo e di sentirselo tutto per la prima volta, avrebbe come l’impressione di déjà vu – o meglio di déja ecouté – visto che più o meno tutte le tracce (non poche: diciotto) di questo album gli suonerebbero probabilmente familiari, come se le avesse già sentite in un passato più o meno recente. Ma non c’è nessun mistero in questo, nessuna questioni di archetipi musicali o di reminiscenze metempsicotiche: semplicemente, tutti e diciotto i pezzi di questo album sono stati usati come colonne sonore di film, spettacoli televisivi, spot pubblicitari e simili. Insomma, non c’è una sola traccia di Play che non sia finita “da qualche parte”, adoperata da registi, autori, pubblicitari – che in quest’album trovarono una sorta di sussidiario per gli anni a venire – come musica per i loro lavori. E non si è trattato di un fenomeno solo anglosassone, àmbito in cui Play spopolò più che altrove, mi di una sorta di contagio artistico che ha attecchito a livello planetario, almeno in Occidente, dove se ne trovano tracce dall’Italia (mi viene in mente C’era un cinese in coma) fino all’Australia (Play fa capolino più di una volta in E morì con un felafel in mano). Uscito nel 1999 e nell’immediato accolto in modo freddino dalla critica specialistica, Play sembra quasi un best of, un’antologia di pezzi svariati – non per forza dello stesso autore – raccolti in un solo disco per fini commerciali. E invece, anche se a modo loro, sono tutti inediti...

È difficile spiegare perché Play sia così bello. Perché bello lo è senz’altro, e si lascia ascoltare tutto d’un fiato. Però è anche un album strano, che per certi versi, nel suo polimorfismo, sembra non avere né capo né coda, i pezzi si susseguono senza alcun criterio, come se qualcuno avesse messo una decina di cd nello stereo e poi premuto il tasto “random”. Forse questa apparente debolezza è in realtà la sua vera e intima forza: Moby lavora traccia per traccia dando il massimo su ognuna di essa, senza pensare ad organizzare una coerenza interna dei brani raccolti, infischiandosene se brani molto differenti tra loro trovano ad avere “cittadinanza” sul medesimo disco.

Certamente, fattori che accomunano le tracce di Play ci sono. Sono tutti brani di “musica elettronica”. Questa definizione però non fuorvii: l’“elettronicità” della musica di Play è tutta un modus operandi, nel senso che sono tutti brani interamente prodotti da Moby, che suona ogni singolo strumento di ogni singola traccia per poi lavorare sul brano con l’ausilio di una strumentazione che, si può immaginare, non deve essere stata da quattro soldi. Con un metodo così, può venire fuori di tutto. Lo stesso concetto di “canzone” per Moby è abbastanza labile: Moby canta, ma solo in cinque brani (su diciotto); in altri brani, si affida a vocalist, ci sono alcuni strumentali, ma più spesso ricorre ai “sample”, altra grande trovata di Moby. Si tratta semplicemente di estrapolare la voce da brani già editi e di suonare sotto di essa una nuova base.

L’effetto di questo pot-pourri di suoni è stratosferico. I sample scelti da Moby spaziano notevolmente: la scatenata Bodyrock riprende Love Rap del 1980, la folgorante Natural Blues si “appoggia” su Troubled So Hard che è molto più antica, essendo del 1937; Run On ha un sample del ’47, a creare un effetto “supervintage” moderno davvero straniante e affascinante. E un simile effetto è ottenuto anche nei brani che non utilizzano sample, come le famosissime Porcelain e Why Does My Heart Feel So Bad?, pezzi che suonano antichi e nuovissimi allo stesso tempo, malinconici e scatenati, blues e dance, gospel e techno, acustici e elettronici. South Side punta sul rock, Machete è pura disco, Everloving è una ballad struggente, e così via...

Un album multiforme e camaleontico che è una miniera di suoni e situazioni, un viaggio in uno spazio musicale cangiante come la sala degli specchi deformanti al luna park. Ed è anche un album che ci ha fatto scoprire Moby (è in realtà il suo quinto disco, ma prima di Play Moby era noto agli addetti ai lavori e pochi altri), un artista a sua volta altrettanto polimorfo come il suo disco, un musicista che nei lavori successivi non si adagerà sugli allori scegliendo di battere strade ancora nuove e diverse rispetto a queste (con alterni esiti, ma ad esempio a mio parere un album come Hotel è un capolavoro da riscoprire), a dimostrazione del coraggio e dello spessore di un artista stravagante e geniale.


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