venerdì 28 giugno 2013

Peter Cameron - Coral Glynn

Peter Cameron, Coral Glynn, Adelphi, Milano, 2012, pagg. 212
Titolo originale: Coral Glynn
Anno di prima pubblicazione: 2012
Traduzione di Giuseppina Oneto
Voto: 8



Ci sono scrittori che sembrano “ronzare” sempre attorno ad un solito archetipo narrativo, e che sembra che scrivano sempre lo stesso romanzo, o comunque una variazione sul tema di un prototipo iniziale, come se la loro intera produzione letteraria non fosse che una sorta di labor limae del loro romanzo ideale, rincorso per un’intera vita artistica. (E questa non è per forza un’“accusa” o comunque una caratteristica negativa: una cosa simile, tanto per fare un esempio, viene detta da taluni anche su Italo Svevo, che è pur sempre uno degli letterati più importanti del Novecento). Altri scrittori invece, concluso un romanzo, sembrano voler definitivamente chiudere i conti con le atmosfere di quel lavoro e decidere, quando sono alle prese con il testo successivo, di dedicarsi a tutt’altro – anche se ovviamente, scavando un po’ oltre la superficie della prima apparenza, richiami e rimandi al corpus complessivo del repertorio si trovano quasi sempre. Nel secondo caso direi che ricade Peter Cameron: l’autore di due romanzi molto belli – e già piuttosto diversi tra di loro – come Quella sera dorata e Un giorno questo dolore ti sarà utile, torna in pista (il libro è stato pubblicato l’anno scorso, e l’edizione Adelphi è uscita in contemporanea con l’originale americana) con Coral Glynn, che segna – almeno in apparenza – una presa di distanza dai precedenti lavori.

Ci troviamo infatti di fronte ad un Cameron molto “europeo”, non solo per l’ambientazione inglese del romanzo, ma anche per un’atmosfera narrativa rarefatta che abbandona l’acume graffiante che aveva permeato Un giorno questo dolore per abbracciare uno stile rigido e all’apparenza freddo che ricorda più Moravia di Salinger. La vicenda di Coral Glynn, un’infermiera a domicilio inglese degli anni ’50 che, rimasta senza parenti dopo la guerra, finisce con lo sposarsi quasi a caso (e comunque per disperazione e non per amore) e a subire i contraccolpi di questa scelta e di altri problemi che le si parano attorno nel corso della vicenda, ha in effetti qualcosa di moraviano, non solo dal punto di vista dell’intreccio (inusitatamente scarno, almeno per un romanzo contemporaneo) ma anche dal punto di vista del taglio d’analisi dato al racconto. La riflessione sociale, che in Cameron era stata più che altro l’indagine psicologica del rapporto dell’individuo col mondo a prescindere dal censo, si arricchisce qua di un elemento di riflessione sulla fascia economica in cui si collocano i protagonisti. Il duplice effetto di straniamento dato dalla collocazione sia spaziale che cronologica della vicenda contribuisce per un verso ad “allontanare” la storia dal lettore – in fin dei conti, negli anni ’50 la forza dei pregiudizi e delle convinzioni sociali era pure più pressante di oggi – ma per un verso finisce col porre la condizione di Coral Glynn come uno specimen contestuale di una vicenda che al contrario aspira all’assoluto umano.

Ed è probabilmente a questo livello di analisi che più si vede la mano del Cameron dei lavori precedenti, nel suo modo di pungere a livello “sentimentale”: in tutto il romanzo si parla d’amore, ma l’amore – il vero amore – è in realtà il grande assente dalla scena, non c’è quasi mai. Se c’è, è frustrato, ostacolato da qualcos’altro. I rapporti interpersonali sono per il resto asettici e convenzionali, invischiati nelle maglie delle “regole civili” che imbrigliano anche i sentimenti che sarebbero più candidi.

Il finale lascia però aperta una porta. Tutto sommato, è un lieto fine: le cose vanno più o meno a posto. Ma vanno a posto nel modo giusto o vanno a posto perché non c’era altro da fare che farle andare a posto, volenti o nolenti, a prescindere da tutto il resto? È un finale veramente ottimista, o semplicemente una palliativa consolazione che fa le veci di una soluzione altrimenti impossibile? Al lettore la scelta, che forse non è nemmeno così difficile da raggiungere: sta qua il nodo centrale di un libro non sempre trascinante (anche se non mancano le parti assolutamente ben riuscite) ma comunque interessante.

Esiste mai la possibilità di sapere davvero chi sono gli altri? Sono tutti come le monete: hanno due facce; se non come i dadi, che ne hanno sei.
(pag. 146)

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