venerdì 1 agosto 2014

Paul Auster - Follie di Brooklyn

Paul Auster, Follie di Brooklyn, Einaudi, Torino, 2007, pagg. 265
Titolo originale: The Brooklyn Follies
Anno di prima pubblicazione: 2005
Traduzione di Massimo Bocchiola
Voto: 9,5



L’anziano Nathan Glass, guarito da un tumore ma un po’ spossato dalla vita e dall’età, torna nella natia Brooklyn per trovare un posto dove passare serenamente il tempo della propria pensione e, soprattutto, altrettanto tranquillamente morire. Non sarà accontentato, nel senso che, contrariamente alle proprie velleità iniziali, gliene succederanno di tutti i colori e la sua vita, tra nuovi incontri straordinari e disordinate storie familiari che presentano il conto, incapperà in un imprevisto e insperato periodo di vivacità... La seconda vita di Nat, che ambiva a scrivere il “Libro della follia umana”, in questa follia si tuffa e ne esce rigenerata.

Il romanzo di Paul Auster, che ha più di qualcosa in comune con alcuni film di Woody Allen (immaginate Nat nei panni del Boris Yellnikoff di Basta che funzioni e ci troverete molte affinità), non solo per anagrafe e ambientazioni (del resto i due autori hanno parecchi “cromosomi biografici” in comune) ma anche per il sottile cinismo che contrappunta le pagine del romanzo. È un cinismo umoristico che dà al romanzo i tratti della commedia ma che funziona come un’arma a doppio taglio, si incunea con leggerezza in sottotesti impegnativi e finisce con l’affrontare, con leggerezza ma non con superficialità, temi ben più impegnativi. La follia umana, che è appunto del libro tratto distintivo sin dal titolo, è scandagliata attraverso la rappresentazione di una società americana letteralmente allo sbando (e per lo più non una società di emarginati, ma – come in Pastorale americana di Roth, testo lontanissimo da questo più ad una prima impressione che ad una lettura approfondita – una classe medio-alta, se non una vera e propria upper class che “alibi economici” per giustificare il proprio disagio non ne ha poi molti). Si tratta a dirla tutto di uno sbando più psicologico che etico – piuttosto che la crudeltà, qua c’è il fallimento.

L’Autore di fronte a tutto questo tumultuoso materiale umano non si pone col piglio del censore indignato, anzi la rappresentazione cinica ed onesta, pur nel suo inflessibile non fare sconti a nessuno, non esprime una severa condanna, lasciando che sia il racconto, nel suo avvincente svolgersi, a parlare al lettore. Siamo un po’ tutti – Autore compreso, perché no? – sulla precaria barca della follia umana, c’è poco da fare. Anzi: c’è poco da fare, ma qualcosa c’è, ossia provare a ricomporre i cocci della propria esistenza quando le cose sono andate per il verso male. Questo sì, si può – si deve – fare. E non si è mai fuori tempo massimo, nemmeno se si è superata l’età della pensione. Non è mai troppo tardi per salvarsi dall’inevitabile follia umana. O almeno per provarci.

Provarci. Perché poi sul risultato non ci sono garanzie. Conta per lo più la capacità di tentare, la voglia di mettersi in gioco a costo di sporcarsi le mani. Conta però anche il destino, nel suo implacabile fare e disfare, scomporre e ricomporre i pezzi delle nostre storie. Un happy ending assoluto in queste condizioni è quindi difficile, se non impossibile. A Nat stesso le cose vanno come vanno. Il romanzo significativamente si conclude l’11 settembre 2001, le cose sembrano andare bene ma manca soltanto un’ora a che la storia – e non solo quella di Nat – cambi di colpo, per sempre.

Quando Wittgenstein scrisse il suo Tractatus mentre era soldato nella prima guerra mondiale, sentì di aver risolto tutti i problemi della filosofia, e giudicò la sua esperienza di filosofo definitivamente chiusa. Allora andò a fare il maestro elementare in un remoto villaggio di montagna austriaco, ma non si rivelò adatto a quel lavoro. Severo, iracondo, perfino brutale, sgridava i bambini di continuo, e quando non sapevano la lezione li picchiava... non soltanto i soliti sculaccioni, ma botte sulla testa e sul viso, furibonde percosse che ad alcuni bambini procurarono vere e proprie ferite. La sua condotta censurabile si riseppe e Wittgenstein dovette dare le dimissioni. Passarono gli anni – almeno venti. [...] Decise che l’unico modo [...] era [...] chiedere umilmente perdono a chiunque avesse maltrattato o offeso. [...] Ormai tutti i suoi ex scolari erano adulti, uomini e donne tra i venticinque e i trent’anni; [...] non ce ne fu neanche uno, uomo o donna, disposto a perdonarlo. Il dolore che aveva inferto era stato troppo profondo, e il loro odio superava ogni possibile pietà.
(pagg. 53-54)

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