Il
discorso del re (2010)
Titolo
originale: The King’s Speech
Regia:
Tom Hooper
Con:
Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter
4 Premi Oscar 2011
(Miglior film, Miglior regia – Tom Hooper, Migliore attore protagonista – Colin
Firth, Migliore sceneggiatura originale – David Seidler), 1 Golden Globe 2011
(Miglior attore in film drammatico – Colin Firth)
Voto:
9,5
C’era
una volta un re, dicevano le favole. Solo che nelle favole la vita dei re era
una pacchia, giusto qualche drago da scannare in gioventù (ai tempi in cui essi
erano ancora principi azzurri), poi una principessa mozzafiato da sposare, ed
un castello da sogno nel quale vivere felici e contenti. La vita però non è
così facile, neanche per i re (per quanto ci siano mestieri peggiori), o
comunque non lo fu per re Giorgio VI d’Inghilterra, che salì quasi controvoglia
al trono per l’abdicazione di un fratello un po’ troppo farfallone per l’epoca,
si trovò a regnare durante uno dei momenti storici più drammatici per il Regno,
ossia la Seconda Guerra Mondiale, e si spense pochi anni dopo, nel 1952, a soli
57 anni, stroncato da un tumore (questo finale nel film però non c’è, anche se
sono presenti le molte sigarette che di certo non giovarono alla salute del
sovrano). E che oltretutto aveva un problema particolarmente imbarazzante,
soprattutto per un re, a maggior ragione per un re che, regnando in tempo di
guerra, doveva rassicurare i propri sudditi parlando loro alla radio: re
Giorgio VI era balbuziente.
Non
un re da favola, quindi, questo Giorgio VI, né un film favolistico, di
conseguenza, questo ottimo Il discorso
del re che pure, al netto delle drammaticità che una storia così intensa
non può non avere, non è esente da un vago incanto a suo modo fiabesco, che
rende la storia per così dire dolce e particolarmente apprezzabile dal grande
pubblico.
L’espediente
al quale il film deve gran parte della sua riuscita è a mio parere proprio la
scelta di focalizzazione narrativa: Giorgio VI, che pure è tanto al centro del
racconto che il film si può anche definire biografico oltre che storico, non è
inquadrato per le sue res gestae e
non ne viene esposta la vita tout-court;
no, al contrario, la pellicola si concentra in particolar modo su un aspetto
specifico del personaggio storico, vale a dire proprio la sua balbuzie.
Deuteragonista a pieno titolo della storia diventa allora colui che “curò” il
re dai suoi difetti di dizione, ovvero un particolarissimo logopedista
australiano che – forte dell’intuizione che la balbuzie è anzitutto un problema
psicologico – non solo riuscì a liberare quasi del tutto dal balbettio re
Giorgio VI, ma che oltretutto ne divenne un profondo amico.
Potremmo
quindi addirittura inquadrare come “manzoniano” l’approccio storiografico del
lavoro di Tom Hooper, un film in cui la Storia con la s maiuscola incontra la storia con la s minuscola, ed i potenti incontrano gli umili fino a diventarne
inseparabili – la balbuzie come “provvida sventura”? Non sarà niente di
particolarmente originale, è vero, ma raccontare la storia partendo non dai
suoi avvenimenti epocali ma da piccoli episodi poco noti è sempre un modo molto
poetico di fare narrazione (scritta o per immagini che sia) ed è un modo, se il
prodotto è qualitativamente ben fatto, riesce a raccogliere consensi. E Il discorso del re è qualitativamente
ben fatto: anche se tecnicamente è ineccepibile (fotografia e montaggio
meritano una menzione), a saltare subito all’occhio è la magistrale
interpretazione dei protagonisti. Colin Firth ha pure vinto l’Oscar (uno dei
quattro assegnati al film), Geoffrey Rush no, ma a mio parere lo meritava tanto
quanto il collega, considerato lo stato di grazia con cui recita durante
l’intero film. A proposito di Oscar, chiudo ricordando che Il discorso del re ne ha ricevuti quattro, oltre ad innumerevoli
riconoscimenti “minori” (se così si possono chiamare): la gloria che hanno
ricevuto il film e coloro che vi hanno lavorato è a mio avviso meritata.
Colin Firth in una scena del film
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