Peter
Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile, Adelphi, Milano, 2007,
pagg. 206
Titolo
originale: Someday This Pain Will Be Useful to You
Anno di prima pubblicazione: 2007
Traduzione di Giuseppina Oneto
Voto: 9
A diciotto
anni, James sta trascorrendo l’estate prima di trasferirsi da New York alla
Brown University. Ma non ci vuole andare: è un ragazzo con seri problemi a
relazionarsi con gli altri, specialmente con i propri coetanei (anche se pure
il mondo degli adulti è “stupidamente
brutale e pericoloso come il regno dell’infanzia”, p. 193). È questo l’epicentro
di Un giorno questo dolore ti sarà utile,
riuscitissimo romanzo breve di Peter Cameron – noto soprattutto per Quella sera dorata, libro che in molti,
ma non io, preferiscono a questo successivo testo: da entrambi, sono state
tratte versioni cinematografiche; quella di Un
giorno questo dolore ti sarà utile, curata da Roberto Faenza, uscirà nel
febbraio 2012. L’Autore è bravissimo nello svolgere il racconto con maestria
narrativa e grande abilità di scrittura, fino a condurre in porto una storia
che ricorda un altro “dramma ironico adolescenziale” quale Il giovane Holden di Salinger. E così James riesce come un “disadattato”
irrimediabilmente simpatico: del resto, il suo vero problema è quello di non
riuscire ad adattarsi ad un mondo al quale in fin dei conti non c’è nessuna
buona ragione per volersi adattare. Il furore critico con cui Cameron mette
alla berlina la società americana è leggero ma inflessibile, e dà risultati
sublimi: la mamma che si sposa ogni due anni e cerca di compensare la propria
solitudine con cd di “self help”, la sorella sempre “in tiro” che salta da un
letto all’altro, la psichiatra (soprattutto) che dall’alto della sua arroganza
fa una grassa figura da imbecille – sono tutti tasselli di un mondo che, al di
là di qualche eccezione (come la nonna, che James adora), lascia davvero poche
speranze. E dire che nel mondo occidentale, ormai, in molti considerano la
felicità un obbligo, e chi non è felice viene considerato quasi un malato, e
invitato a curarsi: ma qual è il motivo per cui dovremmo essere tutti così
felici? Una persona che fosse felice tutti i giorni della sua vita, forse, più
che sana sarebbe un’idiota. James invece, se non altro, al di là della sua refrattarietà
agli altri, che egli cerca comunque di combattere, prova a non rinnegare se
stesso e il proprio essere solo per una sterile adesione alle vacue istanze
della società contemporanea. Ed alla fine, decide di non buttare via niente
delle cose lasciategli dalla amata nonna, e non solo per venerarne il ricordo,
ma per la semplice constatazione che a diciotto anni si è troppo giovani per
capire veramente cosa servirà in futuro: in un mondo che corre sempre di più (e
non si per dove), anche fermarsi per riflettere e prendere il tempo necessario
per orientarsi può essere una grande trasgressione. Niente da dire: questo
romanzo di Cameron è davvero un ottimo lavoro.
«Allora,
James,» l’ho sentita domandare all’improvviso «come mai sei venuto?».
Mi è
sembrata una domanda cretina. Se vai dal dentista puoi dire: «Mi fa male un
dente», se entri da un gioielliere puoi chiedergli se ti cambia la batteria
dell’orologio, ma a una psichiatra che dici?
«Come mai
sei venuto?». Ho ripetuto la domanda sperando che la riformulasse in modo più
intellegibile.
«Sì». Ha
sorriso, ignorando il mio tono. «Come mai sei venuto?»
«Immagino
che se lo sapessi non sarei qui».
«E dove saresti?».
«Temo di non
saperlo».
«Temi,
perché? Hai paura?».
Mi sono reso
conto di avere di fronte una di quelle persone indisponenti che prendono alla
lettera qualsiasi cosa ti esca dalla bocca. «Mi sono espresso male» ho detto. «Non
lo so e basta».
«Sei sicuro?».
«Sicuro di
che? Di non saperlo o di non aver paura?».
«Tu quale
credi?».
«Per favore
la smetta».
«La smetta
di far cosa?».
Ho pensato
che a furia di ripetere l’uno le parole dell’altro, in quarantacinque minuti
non saremmo arrivati molto lontano. «Per favore non risponda alle mie domande
con una domanda, in questo modo da terapeuta».
Senza mostrare la minima reazione o
titubanza ha detto: «Che cosa pensi della psicoterapia?».
Mi sembrava
una gara per vedere chi faceva saltare prima i nervi a chi. Non mi pareva molto
terapeutico, ma ce l’ho messa tutta per vincere. «Penso che la psicoterapia sia
un concetto fuorviante delle società capitalistiche, in base al quale il
crogiolarsi nell’analisi della propria vita sostituisce l’atto stesso di viverla».
(pagg. 70-1)
Ciao, non ho ancora finito il libro, ma mi è piaciuta moltola tua analisi.
RispondiEliminaDamiano
Grazie Damiano, spero che il finale del romanzo possa piacerti (e credo che sarà così perché Cameron ci sa fare) e che tu possa presto tornare a leggere (e a commentare, se ti va) questo blog!
RispondiEliminaCiao,
Francesco!