Melancholia (2011)
Titolo
originale: Melancholia
Regia:
Lars von Trier
Con: Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Kiefer
Sutherland, Alexander Skarsgård
Migliore
interpretazione femminile (Kirsten Dunst) al Festival di Cannes 2011
Voto:
8
Guardando
Melancholia, ho avuto l’impressione
di essere su una navicella spaziale alla deriva, destinata a vagare per l’eternità
nell’universo senza speranza di rientro a casa. Questo perché in effetti l’ultimo
lavoro di Lars von Trier è molto angosciante. Ed è anche molto lento: dura poco
più di due ore (quindi è un film lungo, ma non esageratamente) ma sembra che
duri il doppio…
Con
questa premessa, però, non voglio stroncare il lavoro di von Trier, voglio solo
sostenere l’opinione che si tratti, per così dire, di un “film da festival”,
molto bello, ma anche piuttosto complicato e di certo non divertente né
rilassante. È anzi un film che fa proprio stare male, intriso com’è di
disperazione.
Al
di là di questo, però, il film è ottimo, sia per confezionamento tecnico –
fotografia eccellente e visionaria, girato sofisticato fatto di inquadrature
mosse e talvolta leggermente fuori fuoco, montaggio a scatti come se ogni tanto
mancasse qualche fotogramma – che per scrittura del copione. A tal proposito
vien da pensare che, se molto spesso da un romanzo viene tratto un film e il
contrario avviene molto di raro, Melancholia
potrebbe essere un film da quale trasporre un libro, tanto è indugiante e
descrittivo il racconto inscenato, strutturato appunto come fosse un romanzo
fatto semplicemente di due lunghi capitoli, dopo un prologo di meravigliose
immagini in slow motion (very slow motion!) su musica di Wagner.
Nella prima parte, assistiamo al singolare ricevimento di nozze di una ragazza
ospitato nel maniero del ricco marito della sorella. Nella seconda parte,
sempre nel maniero, le due sorelle si ritrovano per assistere al passaggio del
pianeta Melancholia.
Il
passaggio di questo affascinante pianeta azzurro è il baricentro del film,
soprattutto nella seconda parte: il fatto è che la comunità scientifica è
divisa, c’è chi sostiene che il pianeta passerà senza fare danni e sarà solo un’occasione
per gli amanti dell’astronomia (come il marito della sorella interpretata dalla
Gainsbourg) per ammirare da molto vicino uno splendido pianeta; altri
sostengono né più né meno che il pianeta si schianterà sulla Terra
cancellandone ogni forma di vita. È chiaro che, nel dubbio, un po’ di ansia è
legittima.
Ed altro che ansia inscena il film! L’angoscia
scorre a fiotti non solo per la costante sensazione di spada di Damocle che si
ha a causa dell’incombenza del minaccioso pianeta, ma anche e soprattutto a
causa del nucleo familiare dalla cui ottica è vissuta l’intera vicenda. Perché
le due sorelle sono tutt’altro che serene. La prima, quella del matrimonio, una
spettacolare Kirsten Dunst che per questa interpretazione ha vinto a Cannes il
premio alla migliore attirce, è una depressa cronica. La seconda, una volitiva
Charlotte Gainsbourg, è invece irreparabilmente ansiogena. Interpretare un cinema
simbolico come quello di von Trier è molto complicato, ma, per restare ad un
livello iniziale di analisi, si può capire facilmente che inscenare il terrore
della fine del mondo facendolo vivere da una famiglia mentalmente instabile che
vive in un maniero isolato (dove tutto il film si svolge) non può che essere la forte scelta registica di rappresentare come disperata la condizione umana.
Il destino incombe sull’uomo, e non ci si può fare nulla. Tutta la prima parte,
con un allegro banchetto di nozze su cui aleggia un senso di disperazione e di
morte, ricorda il Thomas Mann di Morte a
Venezia, cioè la rappresentazione di un’umanità vacuamente festosa mentre su di
lei incombe una catastrofe di cui essa non è in grado di accorgersi. Nessun
appiglio per l’uomo, e comunque non dalla scienza né dalla tecnologia, visto
che nel film il passaggio del pianeta manda fuori uso tutti gli
elettrodomestici di casa e alla fine lo strumento tecnico più funzionale all’osservazione
del pianeta è un rudimentale bastoncino di legno da bambini. L’unica salvezza è
semplicemente accettare con dignità il destino, come fa la sorella depressa,
spogliandosi di fronte al pianeta come in una paradossale tintarella notturna,
a segnalare la dimessa accondiscendenza di chi, senza più nulla da perdere, ha
la forza per andare incontro con serenità a ciò che la aspetta. È proprio la
sorella depressa che infatti, nel finale, mentre gli altri cedono, riacquista serenità:
lei che sa cosa significa sentirsi senza scampo è la più adatta a gestire una
situazione del genere. Tant’è che alla fine è proprio lei a costruire, per
tranquillizzare il nipote terrorizzato, un “rifugio magico” anti-Melancholia,
una capanna di tronchi nella quale rifugiarsi e chiudere gli occhi, aspettando
che il destino, quale che sia (non lo svelerò certo io), si compia.
Kirsten Dunst in una scena del film
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