Arto
Paasilinna, Le dieci donne del Cavaliere, Iperborea, Milano, 2011, pagg.
246
Titolo originale: Kymmenen
riivinrautaa
Anno di prima pubblicazione: 2001
Traduzione di Marcello Ganassini
Voto: 5
Premetto
che sono un ammiratore di Arto Paasilinna, e che mi sono letto con piacere
tutti i romanzi che del maestro finlandese sono usciti in traduzione italiana
(e sono ancora pochi, rispetto ad un’opera omnia decisamente molto ampia). Per
questo, quando è uscito questo “nuovo” romanzo (nuovo cioè per noi italiani,
anche se in realtà in patria è stato pubblicato già nel 2001), ero impaziente
di leggerlo. Ed è per questo che la mia delusione è stata atroce: leggere un
brutto romanzo può capitare, leggere un brutto romanzo di Paasilinna non mi era
mai successo. Stavolta però fatico a salvare qualcosa da questo divertissement
ripetitivo e inconcludente. Paasilinna abbandona i boschi e la dimensione
bucolico-rurale, che da sempre gli è congeniale, per proporci un romanzo
interamente ambientato in città (ad Helsinki), e l’“inurbamento” narrativo non
dà frutti entusiasmanti: la trama segue le tracce di un attempato ma vitale
magnate che, nonostante l’età, si concede numerose avventure erotiche, tanto
che arriva ad avere nove amanti oltre, ovviamente, alla moglie tradita ma a suo
modo amata (e così si arriva alle dieci donne del titolo). Dieci donne per lui
posson bastare, ma anche per noi, e ne bastavano pure meno: in questo romanzo
pieno di sesso (molto più che negli altri lavori dell’ex guardaboschi finlandese,
forse anche troppo), si salta da un letto all’altro senza che succeda molto di
più. Certo, viviamo col protagonista qualche disavventura divertente, ma molto
meno che in altre opere; e il problema di questo romanzo sta proprio nel
confronto con i precedenti lavori: chi leggendo questo libro si trova per la
prima volta in mano un Paasilinna, potrà apprezzarne lo stile fluido, l’ironia
soave e le invenzioni narrative, ma sappia che in tutte le altre opere
disponibili in italiano questi ingredienti sono presenti in modo più massiccio,
e usati in modo ben più organico e coerente. Qua, francamente, non capisco
nemmeno se la vicenda va intesa soffusa di un velato maschilismo o di un velato
femminismo, o se al contrario l’unico obiettivo è arrivare a fine romanzo in un
modo o nell’altro, col protagonista che – inevitabilmente, con la condotta di
vita un po’ troppo disinvolta che ha – finisce un po’ nei guai ma alla fine
casca sempre in piedi. E questo è molto paasilinniano: la vita è una cosa
troppo seria per prenderla sul serio, e chi la prende con leggerezza e spirito
alla fine se la cava sempre. Solo che in questo romanzo a questa conclusione si
arriva un po’ così, dopo 240 faticose pagine, per esaurimento delle risorse
creative dell’Autore, la cui famosa fantasia vulcanica pare nell’occasione
disperatamente inceppata. Lo prendo come un incidente di percorso (magari
l’Iperborea ha scelto questo titolo più per il possibile riferimento – in
realtà totalmente assente – a vicende di casa nostra più che per la bontà del
lavoro): in rete non mi è mancato di incontrare recensioni positive, per cui è
possibile che sia per colpa mia che stavolta non sono riuscire ad entrare nello
spirito di un romanzo di Paasilinna. Non so, può darsi: sta di fatto che mi
urge rileggere qualche perla del passato (I
veleni della dolce Linnea, ad esempio, ma anche gli altri) per fare la pace
con questo ottimo scrittore.
Saara
fece notare che il Cavaliere era proprio un gran porcellone. Caciarone e
gradasso, per di più, però almeno, grazie a Dio, era un uomo sposato, e non un
inaffidabile farfallone. Perché nessuna donna che si rispetti accetterebbe di
dividere con altre il suo uomo d’elezione.
(Pag. 110)
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