Bruce Springsteen, Wrecking Ball (2012)
Tracklist:
1. We Take Care Of Our Own – 2. Easy Money – 3.
Shackled And Drawn – 4. Jack Of All Trades – 5. Death To My Hometown – 6. This
Depression – 7. Wrecking Ball – 8. You’ve Got It – 9. Rocky Ground – 10. Land
Of Hope And Dreams – 11. We’re Alive – 12.
Swallowed Up (In The Belly Of The Whale) [solo special edition] – 13. American
Land [solo special edition]
Voto:
9
La
Wrecking Ball è quella sorta di
enorme pallone di ferro che si usa nelle demolizioni, come se ne vedono nei
cartoni animati di Bugs Bunny. Come titolo, per il ritorno sulle scene a tre
anni dall’ultimo album di inediti Working
On A Dream, Bruce Springsteen non poteva scegliere niente di più
significativo: questo pallone da distruzione il Boss sembra volerlo scagliare
sulla società americana contemporanea. Son passati tre anni da Working On A Dream, dicevamo, ma sembra
passato un secolo: il sereno ottimismo che permeava quel lavoro lascia spazio
ad una rabbia e ad un desiderio di riscatto che ricorda il piglio di The Rising, l’album che dieci anni fa fu una sorta di
grido di rinascita per l’America ferita dagli attentati dell’11 settembre. Se
però per The Rising la genesi fu
quindi chiara e manifesta, cosa ha spinto oggi il Boss a scrivere un album con
quasi il medesimo spirito, in assenza di eventi altrettanto gravi che ne
abbiano potuto propiziare l’ispirazione? In realtà, qua più che a un episodio
singolo siamo di fronte ad un’osservazione generale che sgomenta il Boss, e che
sta proprio nel vanificarsi delle speranze che furono alla base di Working On A Dram: quello che sembrava
il New Deal obamiamo – giacché ad Obama si aggrappavano le speranze del Boss
per un nuovo rinascimento dopo il periodo buio sotto Bush – si è risolto invece
in una crisi economica e sociale come da quelle parti non se ne vedevano dal
’29. Non è un modo per rinnegare Obama, credo, direi che è il trauma di capire
che non basta neanche Obama perché
l’America si rialzi. La situazione è pure peggiore che nel dopo 11 settembre:
là almeno c’era un “nemico” esterno e tangibile al quale opporre l’unità e la
grandezza degli Stati Uniti d’America, tanto che l’album The Rising che fu figlio di quel tremendo anno è a conti fatto
impregnato di speranza – la rinascita, appunto. Ora invece il nemico è interno,
quindi più difficile da combattere, ed è la crisi economica, che sta
distruggendo il ceto medio americano, ed è figlio non di stranieri venuti per
uccidere ma di autoctoni venuti per arricchirsi alle spalle degli altri.
Il
tema è delicato ma trova espressioni icastiche in due brani centrali dell’album
come Easy Money e Death To My Hometown, che in qualche
modo sono gemellati. Nel primo l’indice è puntato contro i veri responsabili
della crisi, gli uomini bramosi di “denaro facile”, squali della finanza
disposti a tutto pur di arricchirsi. E disposti pure, come è evidenziato nell’altro
brano, a spolpare le città in cui si insediano, cioè i lavoratori di cui
spremono le forze e che poi licenziano, quando ormai sono così ricchi da non
avere più bisogno di loro: “non è volata una palla di cannone ma hanno portato
la morte nella mia città”, perché questa guerra non si combatte con le armi da
fuoco ma con quelle della finanza senza scrupoli. Il problema è
economico-sociale, e non è certo un tema nuovo per un cantautore attento come
Bruce Springsteen (basti ricordare la sensazionale Youngstown in The Ghost Of
Tom Joad, quella in cui un lavoratore si rivolge al padrone dicendogli “Now sir you tell me the world’s changed Once
I made you rich enough Rich enough to forget my name”, e si ricorda che da
quelle parti i “pezzi grossi” sono riusciti a fare quello che non riuscì
neppure a Hitler).
Wrecking Ball comunque non è solo
questo: ci sono altri momenti di sconforto (This Deperssion su tutti), ma non mancano momenti più fiduciosi (la
stranissima e bellissima Rocky Ground
è quasi una preghiera), fino ad episodi direi alla “Rising”, come We Take Care Of Our Own e We Are Alive (primo e ultimo brano,
significativamente accomunati dal pronome “noi” nel titolo). In tal senso,
indispensabili per una comprensione dell’intero lavoro mi sembrano altri due
brani “gemelli” come Land Of Hope And
Dream ed American Land (quest’ultimo
purtroppo presente solo nella special edition), gli unici non inediti
dell’album insieme alla grintosa title-track
(erano già stati presentati in album dal vivo o su singolo) e che esplicitano
la convinzione del Boss che l’America potrà salvarsi solo tornando ad essere
quella terra dura ma aperta a tutti che fu un tempo, la terra del sogno
possibile per tutti, del vero American Dream che ha portato milioni di uomini e
donne, partiti da molto lontano, a farne la propria terra. American Land in tal senso è inequivocabile: l’America appartiene a
tutti quelli che hanno versato il loro sudore e il loro sangue per costruirne
le ferrovie, lavorarne i campi, temprarne il ferro di cui sono fatte ancora
oggi le città, e che lì sono morti e oggi sono sepolti. Più chiaro di così non
si può: si tratta per il Boss anche di un omaggio alle proprie radici,
riecheggiate sia nell’impianto spudoratamente celticheggiante del brano (il
padre di Bruce è di origini irlandesi) che nella citazione degli “Zerillis” che
sono venuti in America (la madre di Bruce, di origini campane, si chiama
proprio Adele Zerilli).
A
un album così denso semanticamente ma anche variegato musicalmente non poteva
non corrispondere un livello artistico molto alto. Abbandonato il produttore
degli ultimi dischi, quel Brendan O’Brien vilipeso dalla critica forse oltre i
propri demeriti, il Boss si affida ad un Ron Aniello in gran forma, e ad una
sterminata formazione di musicisti che sanno fondere le due anime dell’album,
quella più rock e quella più folk quasi acustica. Sono in effetti due modi di
fare musica che Springsteen porta avanti quasi da sempre, avendo alternato
album più duri (si pensi a Born In The U.S.A.)
a episodi più raccolti (come Nebraska
o il più recente Devils & Dust).
Stavolta le due anime trovano una sintesi impeccabile. Stavolta non c’è la
E-Street Band (si sarà però nel tour dal vivo), ma il sax di Clarence Clemons,
l’amico scomparso da poco cui il Boss nel booklet regala una splendida dedica,
registrato durante gli ultimi live, fa capolino in un paio di brani, regalando
momenti di pura emozione.
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