Erik Larson,
Il giardino delle bestie, Neri Pozza, Vicenza, 2012, pagg. 559
Titolo
originale: In the Garden of Beasts
Anno di prima pubblicazione: 2011
Traduzione di Raffaella Vitangeli
Voto: 8,5
In Misery,
il celebre romanzo di Stephen King, Annie Wilkes sembra una pacata infermiera
ma poi si rivela come una aguzzina matta e sadica. Quello che capita a Paul
Sheldon in quel romanzo sembra capitare anche a William Dodd in questo Il
giardino delle bestie di Erik Larson, con due differenze importante: la prima è
che il professor Dodd scopre suo malgrado la vera natura folle non di una
singola persona, ma di un intero popolo, quello tedesco negli anni ’30; la
seconda è che la storia narrata da Larson non è inventata, bensì assolutamente
vera. Infatti la vicenda di William Dodd, nominato nel 1934 ambasciatore
americano in Germania e trasferitosi perciò a Berlino assieme alla famiglia (e
soprattutto alla vivacissima figlia Martha) è un episodio storico realmente
esistito che Larson ricostruisce in modo dettagliato e rigoroso.
Siamo di
fronte allora ad un romanzo storico nel senso più estremo del termine. Se per
romanzo storico si intende – e non penso alla deriva commerciale di storie
inverosimili in un contesto vagamente storico, bensì al filone più rigoroso che
da Walter Scott e Manzoni arriva fino ad oggi, con la scuola scandinava in primo
piano (si pensi a Per Olov Enquist e Eyvind Johnson) – una storia verosimile
narrata in un contesto storico reale, Larson fa un passo in più scegliendo che
siano veri e documentati non solo il background della vicenda, ma anche la vicenda
stessa. È insomma un lavoro di non fiction filologicamente rigoroso, tanto che
di tutto ciò che viene scritto è fornita la fonte nelle corpose note a fine
romanzo. In questo caso allora la narrativa si imparenta così approfonditamente
con la storiografia da confondersi con essa, ma sempre di narrativa parlerei:
pur essendo rigoroso come un saggio, Il giardino delle bestie non è un saggio
in virtù del piglio impostogli dall’Autore, che, pur maneggiando una materia
vera, si comporta più da narratore che da storiografo. Come dire: è una storia
vera raccontata come se fosse inventata.
Un’operazione
del genere – tenuto conto che alla trama l’Autore si vieta di aggiungere
episodi inventati che la renderebbero più avvincente ma non più reale – può
essere fatta solo da uno scrittore particolarmente dotato, altrimenti rischia
di naufragare in una noia insormontabile. E Larson si rivela in tal senso
Autore capace di una sfida tanto improba, e riesce nel duplice compito di
scrivere un testo che sia al tempo stesso avvincente come un romanzo e
interessante come uno studio storiografico. Il ritmo e l’avventura da una
parte, la storia e i documenti dall’altra: il romanzo di Larson, pur nella sua
lunghezza, supera la prova a pieni voti.
Certamente,
i thriller di pura fiction, potendo attingere al serbatoio della fantasia di
chi scrive, divertono di più. Tuttavia, ciò che il lavoro di Larson perde in
divertimento viene compensato dall’interesse per quel che è raccontato. È
infatti interessantissimo vedere come nel 1934 non ci fosse all’estero – e
forse nemmeno in Germania – la consapevolezza di cosa fossero Hitler e il
nazismo né di cosa essi avrebbero significato per le sorti dell’umanità. Un po’
perché capire era difficile, un po’ perché la Germania aveva un debito
colossale con gli Stati Uniti e – quasi paradossalmente – osteggiarla apertamente
poteva significare non riavere indietro quel denaro, un po’ perché
l’antisemitismo non mancava neppure dall’altra parte dell’oceano, fatto sta che
quasi nessuno aveva capito quello che stava accadendo. Dodd invece sì. Non da
subito, però: arrivato lì da filotedesco (amava la Germania, dove aveva pure
studiato), pian piano si rende conto, con sgomento, della verità fattuale che
lo circonda. Prova a farlo capire al governo americano, e viene per lo più
ignorato, tanto che finirà con l’avere il titolo – a suo modo riabilitante
ma in fin dei conti poco consolatorio – di “Cassandra” dei funzionari
americani. La stessa sua parabola, da filotedesca ad avversaria del nazismo,
viene seguita dalla figlia Martha, che oltretutto è una figura complessa e
caleidoscopica, vivacissima anche sessualmente e in grado di cacciarsi nelle
situazioni più impensabili (tanto da venire pure contattata dallo spionaggio
sovietico). Ecco perché Il giardino delle bestie è una lettura consigliabile,
non solo perché è un romanzo ben scritto piacevole da leggere, ma anche perché
propone un monito da non dimenticare: nessuna tirannide nasce apertamente tale,
nessun tiranno andrà a dire apertamente da subito «Sono un tiranno», per cui
chi sta scivolando dentro un regime spesso rischia di non accorgersene. Anzi,
rischia di accorgersene solo quando è troppo tardi (e troppo pericoloso) per opporsi. E
le poche cassandre che fiutano prima degli altri il pericolo spesso vengono per lo più
inascoltate.
Hanfstaengl
ricambiò la simpatia di Martha, pur non avendo una grande considerazione di suo
padre. «Era un piccolo e modesto professore di storia che veniva dal Sud e
dirigeva l’ambasciata con pochi spiccioli, cercando forse di mettere da parte
qualcosa» scrisse Hanfstaengl nelle sue memorie. «In un’epoca in cui solo un
miliardario poteva competere con il fasto nazista, Dodd si teneva nell’ombra
come se fosse ancora all’università». Hanfstaengl lo chiamava con disprezzo
“Papà Dodd”.
«La
cosa migliore che possiede» scrisse Hanfstaengl «è la sua attraente figlia
bionda, Martha, che posso dire di conoscere molto bene». Hanfstaengl la trovava
affascinante, vivace; una donna con un innegabile appetito sessuale.
E
questo gli suggerì un’idea.
(pag.
105)
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