Arthur
Schnitzler, Gioco all’alba, Adelphi, Milano, 1983, pagg. 131
Titolo originale: Spiel
im Morgengrauen
Anno di prima pubblicazione: 1927
Traduzione di Emilio Castellani
Voto: 10
Di un grande
scrittore come Arthur Schnitzler non c’è bisogno di fare presentazioni: ottimo narratore della Vienna di primo Novecento, è tra gli autori più bravi – ed in
tal senso è pure un antesignano – nel raccontare le storie da un punto di vista
psicologico e introspettivo, e in tal àmbito è esemplare il suo celebratissimo Doppio sogno (da cui Kubrick trasse il
suo ultimo lavoro, Eyes Wide Shut).
Scrittore para-freudiano – conosceva, anche di persona, Freud, l’ammirazione
per il quale non gli impediva di non approvare del tutto le sue teorie – ma non
solo, Schnitzler è un narratore geometrico, avvolgente, ipnotico che nelle sue
opere, in Gioco all’alba come e più
che in Doppio sogno, riesce a raccontare
magnificamente la società nella quale viveva. In Gioco all’alba, la scena centrale del romanzo ci mostra la folle
notte di gioco di un tenente a cui i soldi dànno così alla testa che egli non
riesce più a controllarsi, a smettere di giocare prima che sia troppo tardi,
proprio come avviene nella allucinante Roulettenburg di Dostoevskkij (Il giocatore precede Gioco all’alba di una sessantina d’anni).
Nella Vienna tardoimperiale, infatti, e non solo lì, si giocava d’azzardo più
accanitamente che nel Texas dei pionieri, ma il tenente protagonista del
romanzo passa veramente il segno, preda della follia di gioco, tanto da
indebitarsi fino al collo in quella sola, scellerata, notte. Ed il problema è
che i debiti d’onore contratti giocando vanno saldati entro ventiquattro ore,
altrimenti la cosa migliore da fare, per evitare il discredito sociale, è
addirittura suicidarsi. Proprio così, e qua siamo nella seconda parte del
romanzo: l’upper class viennese dell’epoca – ma temo che in realtà il discorso
possa riferirsi a molte upper class di ogni luogo e tempo – era il trionfo dell’ipocrisia,
una società che si ammantava di un formalismo cordiale e affettato per
nascondere tutti gli odi e i rancori che vi proliferavano. Già vivere in una
società così non è semplice, figurare trovarvi, come è obbligato a fare il
nostro tenente, qualcuno disposto a prestare di punto in bianco undicimila
fiorini per consentirgli di saldare il debito di gioco! Al nostro tenente non
resta che provare a rivolgersi ad una amante di qualche anno prima, nel frattempo
diventata molto ricca per via matrimoniale (e si tratta, si capisce!, di un
matrimonio di convenienza). Si arriva così ad una sublime scena a specchio, in
cui i ruoli della donna ricca e dell’uomo implorante si rovesciano rispetto
alla precedente notte d’amore, a dimostrazione che anche l’erotismo e i
sentimenti possono essere strumenti di dominio e sopraffazione reciproca, un
modo non per donarsi all’altro ma per riaffermare il proprio io. «Ci sono diverse maniere di essere soli»,
ammette la donna (p. 110). Si arriva così al colpo di scena finale, di cui non
si può dire nulla per non rovinare la sorpresa a chi ancora dovesse leggere il
libro: basti dire che si tratta di una manciata di pagine indimenticabili.
Grande ritmo, grande capacità di raccontare il proprio tempo e la natura umana,
grande introspezione psicologica: tuffarsi nelle pagine di Schnitzler è sempre
un’esperienza impagabile.
«Dove vado o
non vado, tenente,» replicò il console «a lei non deve importare affatto. Tutti
sanno che i debiti di gioco hanno ventiquattr’ore di tempo per essere saldati».
«Questo lo
so, signor console, lo so anch’io. Però qualche volta si danno dei casi...
conosco dei colleghi che in situazioni simili... Dipende solo da lei se per il
momento può ritenersi soddisfatto di una cambiale o della mia parola, fino...
almeno fino a domenica prossima».
«Non mi
ritengo soddisfatto, tenente: domani, martedì a mezzogiorno, è il termine
ultimo... oppure la denuncio al suo comando di reggimento».
(pag. 68)
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