L’arciere
di ghiaccio (1987)
Titolo
originale: Ofelaš
Regia:
Nils Gaup
Con:
Mikkel Gaup
Voto:
8
Dire
che questo è un film norvegese – e per produzione, cioè per stanziamento del
budget, lo è senz’altro – è corretto ma troppo vago: L’arciere di ghiaccio, per essere precisi, è un film lappone, anzi
sami come più correttamente andrebbe detto (“lappone”, anche se è usato pure
nel doppiaggio di questo film, è un termine connotato da una etimologia
fortemente dispregiativa), così come sami è il regista Nils Gaup.
Da
diecimila anni, i Sami vivono in un ampio territorio che dal nord della
Norvegia passa per Svezia e Finlandia fino alla Penisola di Kola in Russia.
Nonostante questa storia millenaria, la Lapponia (ma anche in questo caso
sarebbe più corretto usare un altro termine, Sápmi) non è riconosciuta
politicamente, ed è solo dal secondo dopoguerra che i Sami stanno ottenendo
qualche piccolo risultato in direzione del riconoscimento dell’autonomia, così
come è solo da relativamente poco tempo (circa un secolo) che la millenaria
cultura sami, la cui trasmissione è da sempre affidata al mezzo orale, è
approdata a forme più modere di comunicazione (il primo libro in lingua sami
mai stampato è del 1910, un testo di Johan Turi tradotto anche in Italia col
titolo Vita del lappone). E L’arciere di ghiaccio, datato 1987, è il
primo lungometraggio mai girato interamente in lingua sami, e resta ad oggi il
più famoso.
La
storia del film, ambientato all’incirca mille anni fa è molto semplice: il
giovane sami Aigin, vero e proprio eroe della nostra storia, dovrà fronteggiare
da par suo un gruppo di Chudes, una delle poche tribù sami a praticare la
guerra (i sami sono da sempre un popolo pacifico che usa le armi solo per
cacciare), verso i quali ha buoni motivi per nutrire un profondo desiderio di
vendetta. Scoprirà però che solo l’astuzia e l’ingegno, e non già la violenza
né la forza bruta, gli potranno consentire di raggiungere i propri scopi,
evitando che i terribili Chudes abbiano la meglio. Come spiega infatti la voce
narrante subito all’inizio del film – «Questa
storia si è tramandata fra i Lapponi di generazione in generazione per quasi
mille anni» – la vicenda messa in scena non è una semplice storia, frutto
della fantasia di qualche scrittore o sceneggiatore, ma un’antica e autentica
leggenda millenaria, che i Sami han tramandato oralmente, di generazione in
generazione, nel corso dei secoli. Il fascino che trasuda da ogni millimetro
della pellicola di questo film non va quindi cercato tanto nella comunque
piacevole avventura che vi è narrata, ma nel modo in cui il regista riesce a
dare vita attraverso un mezzo di comunicazione moderno come il cinema ad una
storia vecchia di secoli che fa parte del folklore e delle tradizioni del suo
popolo. Il cineasta sami riesce anzitutto a pervadere le scene di un alone di
mistero e magia che conferisce al film una potente forza evocatrice non solo
nei momenti più metafisici della storia: la presenza incombente di un
pericoloso nemico, così come la rigidità di una terra così dura e spietata come
la Lapponia d’inverno, è fatta sentire vivamente allo spettatore grazie alla
regia veramente solida di Gaup. E non è tutto: è veramente commendevole
l’attenzione documentaristica con cui il film viene sviluppato, spia evidente
dell’interesse del regista di non raccontare solo una storia ma di parlare di
un popolo, del suo popolo (Gaup è del resto da sempre molto attivo nella
diffusione della cultura sami): c’è molta insistenza sulle credenze sami
(l’orso, il maschio della renna), sulle loro usanze (i rituali della caccia, la
sauna), e sono davvero numerosissimi gli stretti primi piani sulle facce degli
attori, ritratti quasi come se fossero soggetti di un servizio fotografico
“etnico” di quelli come se ne vedono su “National
Geographic” o altre riviste specializzate. D’altronde, tutti i personaggi sami
del film sono effettivamente attori sami (gli unici attori norvegesi del cast
sono quelli che interpretano i membri della tribù “cattiva”), e tutte le scene
sono girate in territorio sami, per lo più nelle zone attorno a Kautokeino (la
città natale di Gaup, sita in Norvegia ma considerata da tutti la capitale del
non riconosciuto stato Sápmi). Le stesse tremende condizioni ambientali che si
vedono nel film sono autentiche, non ricostruite in studio ma riprese en plein air nel rigido inverno artico,
con tutte le difficoltà che si possono immaginare: le cronache raccontano che il
cast e la troupe del film han capito quanto sarebbe stato difficile il loro
compito sin dal primo giorno di riprese, quando si sono ritrovati a girare a
-47° gradi di temperatura, e si racconta anche che in quel frangente alcuni
stuntmen inglesi, reduci dalle spericolatezze dei film di James Bond, si siano
rifiutati di lavorare a quelle condizioni, mentre nessuno dei sami, avvezzi a
quel clima, si è tirato indietro! Aiutato da un cast costituito perlopiù da
dilettanti ma non per questo non all’altezza (spicca nel ruolo del protagonista
il diciannovenne Mikkel Gaup), una colonna sonora azzeccata e una fotografia
magistrale, Gaup ha un “tocco” raffinatissimo che riesce a coniugare una storia
d’azione con un magistrale stile documentaristico, tanto che, a proposito di un
film magico come questo, può non essere un azzardato ossimoro definirlo un
“fantasy antropologico”.
Diciamo infine che L’arciere di ghiaccio (da cui venne anche tratto un remake hollywoodiano, Pathfinder, stroncato però dalla critica) rappresentò la Norvegia alla corsa al Premio Oscar per il miglior film
straniero del 1988: anche se non vinse la statuetta, si trattò comunque del primo,
sospirato e meritato, riconoscimento internazionale alla millenaria cultura del
popolo Sami.
Mikkel Gaup nei panni di Aigin, il protagonista del film, è il secondo da destra in questa scena di L'arciere di ghiaccio.
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