venerdì 9 novembre 2012

Philip Roth - Pastorale americana


Philip Roth, Pastorale americana, Einaudi, Torino, 2005, pagg. 458
Titolo originale: American Pastoral
Anno di prima pubblicazione: 1997
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Voto: 8,5




«The best is yet to come!», ha proclamato al mondo Barack Obama dopo la sua rielezione a Presidente degli Stati Uniti. Nel congratularmi con lui esprimendo la mia piena soddisfazione per l’esito delle elezioni statunitensi, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensa di queste parole uno dei più grandi scrittori americani contemporanei, quel Philip Roth che nel 1997 pubblicò il monumentale Pastorale americana che di fatto preannunciava la ventura crisi economica e non solo che di lì a qualche anno avrebbe travolto l’America e l’intero mondo occidentale. Non credo che sarebbe d’accordo con tutto questo ottimismo, visto il modo impietoso con cui Roth si dedica a distruggere pezzo per pezzo tutti i miti dell’America di oggi. Pastorale Americana è un romanzo molto impegnativo, che nell’edizione italiana conta grossomodo 500 pagine di caratteri piccoli e fitti fitti, ed ha uno stile rigoroso e preciso ma non sempre scorrevolissimo. Un grande romanzo non solo perché è un volume materialmente grosso, ma soprattutto perché è un’opera dal valore letterario e più latamente culturale molto ampio.

In un mirabile gioco di specchi narrativo, Pastorale americana racconta la storia di Seymour Levov (detto lo Svedese) narrata, ricostruendo con la fantasia laddove mancano dati certi, dalla voce di un altro personaggio, lo scrittore Nathan Zuckerman, che dello Svedese non ha che una conoscenza limitata. Espediente interessante che crea una sorta di finzione nella finzione, una narrazione di secondo grado che per certi versi estrania il personaggio di cui si parla ma per certi versi ne rende la storia ancora più esemplare, non una vicenda particolare che sarebbe potuta accadere solo a lui, ma un percorso esistenziale che poteva capitare a tutti. O almeno a tutti gli “americani modello” come Levov.

La storia dello Svedese, un ragazzo predestinato al successo che invece si ritrova quasi incredibilmente di fronte ad un irreparabile fallimento esistenziale, serve infatti a Roth per demolire ad uno ad uno, con implacabile rigore, i miti americani, mostrandone quasi senza pudore l’illusoria vacuità. È un romanzo dal respiro enorme: Roth divaga molto, nella narrazione fluviale di un racconto monumentale che si perde in pagine su pagine di riflessioni, aneddoti, storie secondarie, descrizioni. Detto così, sembra affine ad un altro “divagatore all’ennesima potenza” come David Foster Wallace (di cui si è parlato per La scopa del sistema) ma in realtà siamo su un altro pianeta: Roth è preciso e rigoroso, compassato e meditabondo, non si smarrisce mai, non inventa nulla di scoppiettante, è severo e austero, accigliato nel non abbandonarsi quasi mai all’ironia (solo verso pag. 350, quando si parla di arte contemporanea e dell’incomprensione, nonché della moda, che c’è attorno ad essa, i toni si alleggeriscono sensibilmente e ci troviamo di fronte a passi francamente divertenti, ma in un romanzo così ampio è solo una goccia dolce in un mare salatissimo). Personalmente, avrei maggiormente gradito un romanzo più breve, lungo anche la metà di quello licenziato da Roth. Non per questo voglio sostenere che Pastorale americana sia eccessivamente lungo: la lunghezza rientra pienamente nella strategia di Roth: per costruire un’anti-pastorale che in modo scientificamente distruttivo palesasse tutte le ipocrisie, le infedeltà, le meschinità e le pochezze della società americana, Roth aveva bisogno proprio di un’opera dal respiro tanto ampio quanto questa, una narrazione individuale dalla dimensione però universale, in grado di abbracciare in toto l’argomento trattato. Ecco perché si tratta di un libro impegnativo che però si lascia leggere, che non entusiasma – non deve entusiasmare! – ma avvince il lettore per via dell’interessa che suscita. Pastorale americana mette a nudo l’insospettabile dark side della società americana, mettendone in luce gli aspetti più ombrosi che altrimenti sarebbero difficili da conoscere.

Ecco un uomo che non è stato programmato per avere sfortuna, e ancora meno per l’impossibile. Ma chi è pronto per ad affrontare l’impossibile che sta per verificarsi? Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore? Nessuno. La tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti.

(pag. 94)

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