Elling (2001)
Titolo
originale: Elling
Regia:
Petter Næss
Con:
Per Christian Ellefsen, Sven Nordin
Voto:
8
Elling
e Kjell Bjarne, due pazienti di una clinica psichiatrica, ottengono dal governo
norvegese un appartamento nel centro di Oslo, in cui potranno vivere,
totalmente sovvenzionati, a patto che dimostrino all’assistente sociale loro
assegnato di poter e saper condurre una vita “normale”. Ma cos’è la normalità,
ammesso che esista? E come la si raggiunge, ammesso che la si voglia
raggiungere? I due amici non si trovano in una situazione semplice: "Alcuni sciano da soli verso il Polo Nord,
mentre io devo raccogliere tutto il mio coraggio per attraversare la sala di un
ristorante”, dice sconfortato Elling ad inizio film. Più che un romanzo di
formazione, è un percorso a zig-zag tra le asperità della condizione umana,
ricca di paure come di gioie, in un film molto nordico per l’impianto di storia
seria che non rinuncia a suscitare sorrisi e divertenti paradossalità. Pellicola
norvegese di una decina di anni fa girata da Petter Næss ed ispirata al romanzo
Fratelli di sangue di Ingvar
Ambjørnsen (edito in Italia da Pisani), Elling
è stato un clamoroso successo in patria, al punto che ne sono stati fatti tre
sequel (uno dei quali diretto dallo stesso Næss), ma ha avuto buon seguito
anche all’estero, tanto da finire in nomination come miglior film straniero ai
Premi Oscar 2002 (è il quarto e ad oggi ultimo film norvegese ad aver avuto
questo onore); questo non gli è bastato per evitare attacchi molto duri da
parte di alcuni critici, che lo hanno stroncato per una indiscutibile riduzione
ai minimi termini di un tema sicuramente complesso trattato con superficialità
anche se con rispetto. Non credo però che il film vada letto come un lavoro sul
disagio psichico, sebbene da esso prenda spunto: a prescindere dai giudizi
estetici che ciascuno può formulare, ritengo che Elling sia interpretabile più che altro come un percorso di
formazione “umano”, una speranzosa riflessione sulla vita. Perché a conti fatti
il film mostra che la “normalità” in realtà non esiste, che nessuno è normale, e
che anzi, come sostiene icastico Ambjørnsen, “Non sono convinto che sia normale
essere normali”. Allora non può esistere nemmeno una “normalizzazione” tout court. L’unico percorso di
formazione che ci può essere è la realizzazione di sé, e la realizzazione di sé
è trovare la giusta dimensione al proprio io e il giusto rapporto dell’io con
gli altri. Il tema non è di poco conto, in una delle nazioni più progredite al
mondo che eppure, come si è già detto parlando di Doppler di Erlend Loe, non è estranea a fenomeni di “rigetto”
contro la società come alcolismo, disagio psichiatrico, alto tasso di suicidi,
razzismo e addirittura, come avvenuto lo scorso anno, terrorismo. Scrittori
come Ambjørnsen, Loe ma anche Johan Harstad e pure Arto Paasilinna (che è sì
della vicina Finlandia, ma ben noto in tutta la Scandinavia e anche oltre) si
sono posti quindi la domanda di come sia possibile stare così male in un paese
in cui si sta così bene. E la risposta sta probabilmente nell’eccessiva
omologazione dei comportamenti, nello smaccato formarsi di una società così
conformista e “perfettina” da risultare a qualcuno insopportabile. Come “sopravvivere”
ad una società così “omologante” restando comunque se stessi? E ancora: come
restare se stessi in una società così “omologante” senza finirne emarginati o
diventare un’emergenza sociale? Sono questi i problemi affrontati da Elling e
Kjell Bjarne ma, a ben pensarci, sono problemi che hanno un respiro universale,
non solo nel contesto in cui sono inscenati. Ecco perché, pur nella sua
indiscutibile leggerezza, Elling risulta comunque un lavoro interessante e
significativo, oltre che estremamente godibile.
Per Christian Ellefsen e Sven Nordin in una scena del film
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