Blur, 13 (1999)
Tracklist: 1. Tender – 2. Bugman – 3. Coffee & TV –
4. Swamp Song – 5. 1992 – 6. B.L.U.R.E.M.I. – 7. Battle – 8. Mellow Song – 9.
Trailerpark – 10. Caramel – 11. Trimm Trabb – 12. No Distance Left To Run – 13.
Optigan 1
Voto: 9,5
Uscito
nel 1999, 13 dei Blur è ancora oggi
un album il cui ascolto lascia a bocca aperta. Reduce dal sorprendente Blur del 1997 (l’album, per intenderci,
con Song 2), la band di Damon Albarn ribadisce
e accentua la scelta di indirizzare la propria musica verso rotte nuove, divergenti
– senza rinnegare nulla – dalle strade del brit-pop battute con fierezza e
decisione fino a The Great Escape, il
lavoro del 1995. La nuova direzione intrapresa passa anche attraverso il
doloroso cambio di produttore: “rottamato” il fidato Stephen Street –
produttore dei Blur sin dagli esordi, e ormai considerato da molti il quinto
membro del gruppo – nonostante questi si fosse dimostrato abile anche nel
gestire le nuove atmosfere “indie” dell’album del 1997, i Blur scelgono William
Orbit, già produttore di Ray Of Light
di Madonna (uno dei migliori album della signora Ciccone) nonché acclamato “remixer”
anche di brani degli stessi Blur. Orbit era quello che ci voleva, è l’innesco
che fa brillare la miccia dei Blur: l’esplosione prende il nome di 13, scelto perché è semplicemente il
numero dello studio dell’Emi nel quale l’album è stato perlopiù registrato (ma
anche perché nel mondo anglosassone è un numero considerato sfortunato ed i
Blur han voluto andar contro questa tradizione; oltretutto, sulla copertina del
disco, la cui grafica ancestrale è curata dallo stesso Graham Coxon, il 13 viene scritto come una “b”, prima lettera
di Blur).
Gli
“ingredienti” di 13, che contiene
ovviamente 13 tracce, sono ben dosati al fine di ottenere tre singoli di sicuro
impatto che non rompano troppo con la tradizione né con il repertorio del
passato, ed altri dieci brani decisamente più fuori dagli schemi. Il primo “singolone”,
ça va sans dire, è la ballad di 7 minuti e 40 secondi Tender, un accorato inno all’amore che parte dalla smussata
chitarra di Coxon – il quale sul ritornello piazza il suo irresistibile “Oh my
babe”, struggente marchio di fabbrica sulla canzone – si spiega sulle note dell’intensa
strofa di Albarn, esplode nell’epico ritornello del “Come on”, e, dopo che l’andirivieni
dei cicli strofa-ritornello è stato arricchito dall’assolo di Coxon, si
conclude su un magnifico coro gospel sul quale la canzone sfuma in una scia di
emozione e sentimento: uno dei singoli più d’impatto degli anni ’90, accostato
da taluni a brani storici della musica leggera del Novecento come Hey Jude e Give Peace A Chance.
Il
secondo singolo, traccia 3 del disco, è opera di Graham Coxon, che racconta il
difficile periodo di disintossicazione dall’alcol attraverso gli elementi che
più l’hanno aiutato ad uscire da quel tunnel, ossia Coffee & TV. Brano dolcissimo, che vola sugli accordi serrati
della chitarra acustica e prorompe in una amabile proposta di matrimonio (“So take me away from this bad world and
agree to marry me”): il video che lo accompagna, premiatissimo, è forse tra
i migliori videoclip musicali mai girati (quello della storia d’amore tra
cartoncini di latte, indimenticabile!). Il terzo singolo arriva al tramonto del
disco, alla traccia 12, ed è il singhiozzante blues di No Distance Left To Run, brano cupo ma pulsante nel quale Albarn
convoglia tutta la disperazione per la fine della lunga storia d’amore che
viveva ormai da anni.
Come
si vede già dai singoli, angoscia per un passato ormai finito ed euforia per un
futuro tutto da costruire convivono, con rinnovata coincidentia oppositorum, in tutto l’album, anche nei dieci brani “di
rottura” del disco, quelli tenuti lontani dai singoli ma caratteristici forse
più di essi nella definizione e comprensione dell’evoluzione dei Blur, un
gruppo che non si è adagiato sugli schemi del successo già ottenuto ma si è
rinnovato in cerca di un difficile passo avanti. Spiazzante è subito la traccia
2, Bugman, che sembra registrata con
un aspirapolvere, una canzone che parte potente e finisce esplodendo in una ridda
di suoni, uno schiaffo in musica che sballotta l’ascoltatore per respingerlo
dapprima e sedurlo agli ascolti successivi. Le atmosfere sono simili, cioè un
rock potente ma anche scanzonato, pure in Swamp
Song e nella scatenata B.L.U.R.E.M.I.,
quasi un serrato divertissement. Mellow
Song, traccia 8, e Trailerpark,
traccia 9, costituiscono un dittico dal tenore più incerto che segna la seconda
parte del disco: la prima parte più compassata per finire più tambureggiante,
la seconda è più mossa, con qualche accento quasi funky, e trova l’acme nel
verso più stravagante del disco, “I lost
my girl to the Rolling Stones”.
A
parte lo strumentale Optigan 1,
crepuscolare e onirico valzer con accompagnamento di campane che chiude il
disco, gli altri brani di 13 sono decisamente più cupi. Caramel e Trimm Trabb
sono secondo la mia impressione i due pezzi dalla maggior difficoltà tecnica di
esecuzione, nei quali i Blur dànno ancora una volta prova di grandissima perizia
musicale (specialmente la deflagrazione finale del secondo brano è memorabile);
Battle e soprattutto 1992 (con capolavoro in chiusura di
Orbit, che tira fuori una nota dal sintetizzatore per stiracchiarla e
trascinarla con i suoi feedback guidandola all’interno dell’impasto musicale
dei Blur come il pilota che guida un disco spaziale negli accessi più reconditi
dell’universo) si venano di una disperazione straziante che si spande con suoni
disperati e alienanti.
Insomma, un disco da
ascoltare e riascoltare, possibilmente anche con le cuffie, le cui mille
sfaccettature vengono fuori un po’ alla volta e che seduce sempre di più di
ascolto in ascolto. Una pazzesca prova di maturità per i Blur che riescono a
coniugare il brit-pop che li aveva resi famosi con uno stile sperimentale che
ammicca al rock e all’elettronica, un saggio di bravura dalle profondità
misteriose che colpisce e dà la misura delle immense capacità di questi quattro
ragazzi terribili. Come disse Graham Coxon a Stuart Maconie, autore della
biografia 3862 giorni – La candida storia
dei Blur (edita in Italia nel 2000 da Arcana), 13 è «un trip allucinante nel tempio del diavolo»!
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