Fabrizio De André, Anime salve (1996)
Tracklist:
1. Prinçesa – 2. Khorakanè – 3. Anime salve – 4. Dolcenera – 5. Le acciughe
fanno il pallone – 6. Disamistade – 7. Â cúmba – 8. Ho visto Nina volare – 9.
Smisurata preghiera
Voto:
10
Dell’indimenticato
Fabrizio De André abbiamo già parlato (anche di recente) in questo blog, ma di
De André non si parla mai abbastanza, e proprio oggi che ricorre l’anniversario
dalla morte (avvenuta l’11 gennaio 1999) non potevamo perdere l’occasione per
ricordarlo ancora una volta. Lo facciamo riprendendo in mano l’ultimo album di
“Faber”, un disco non altrimenti definibile che come capolavoro, Anime salve, pubblicato nel 1996 e
frutto della decisiva collaborazione con un altro grosso calibro della musica
italiana come Ivano Fossati, i cui benefici apportati alla musica di De André
sono di sicuro non trascurabili. Non è comunque, ovviamente, solo merito di
Fossati se Anime salve è un disco che
rasenta – o raggiunge? – la perfezione, né soltanto dell’indiscutibile qualità
di tutti i collaboratori chiamati da De André a lavorare all’album,
dall’impeccabile produttore Piero Milesi fino a tutti i grandissimi musicisti
impegnati nelle registrazioni (collaboratori di vecchia data cui si aggiungono
turnisti di acclarata fama): c’è anche tanto merito dello stesso Fabrizio De
André. È come se il cammino poetico di una vita, un cammino già di per sé
straordinario, fosse sublimato in un disco che ha saputo riprendere i temi
portanti dell’intera carriera deandreiana, dal punto di vista musicale ma anche
e soprattutto da quello contenutistico, per dar loro una forma che, pur
instaurandosi in continuità con quanto fatto fino ad allora, risulta nuova ed
ancora più raffinata, evoluta. Musicalmente, la passione per la musica etnica,
in particolar modo per quella mediterranea, che in De André aveva conquistato
una prepotente ribalta dal 1984 con Crêuza
de mä (ma già qualcosa aveva fatto capolino nell’album noto comunemente
come L’indiano) si fonde con
l’attenzione per sonorità di stampo diverso che aveva già fatto capolino in Le nuvole – che si era addentrato anche
nell’esplorazione di melodie mitteleuropee, mentre Anime salve ammicca decisamente più che altro a sonorità
latinoamericane – nonché con sporadiche orchestrazioni di stampo classico che
richiamano gli arrangiamenti degli esordi. Ma è dal punto di vista dei
contenuti che Anime salve tocca vette
di splendore che portano ad ideale compimento la poetica dell’intera carriera
di De André.
Anime salve è infatti una
cosmogonia dell’umanità reietta ed indifesa, un canto corale degli emarginati e
degli oppressi, della maggioranza che le condizioni di vita subalterne rendono
minoranza, degli ultimi che non saranno mai primi. Le Anime salve di questo disco, e della stessa title-track che è anche uno dei due duetti con Ivano Fossati (che
scrive con Fabrizio l’intero album ma presta la sua voce solo qua e in  cúmba), sono più che altro anime da
salvare, o anime che saranno salve solo in una indefinita dimensione in un
altro spazio e in un altro tempo rispetto ai nostri (“Mille anni al mondo, mille ancora / che bell’inganno sei anima mia”
è lo scioccante incipit del brano), e De André ne canta e difende le sorti
senza paternalismo alcuno, senza abbandonarsi a moralismi che non gli sono mai
appartenuti né interessati, senza alcun interesse politically correct di indorare la pillola. La matrice è al
contrario la stessa sensibilità dalla parte degli umili che ha animato gli
esordi di De André – da La ballata del
Miché a Bocca di Rosa passando
per La canzone di Marinella – e che
di fatto ne ha innervato l’intera produzione poetico-musicale (si pensi ad un
album dirompente come Tutti morimmo a
stento): essa è presente in Anime
salve sin dal pirotecnico avvio, un brano diretto e di sconcertante
bellezza, che senza giri di parole racconta la vita di un viado brasiliano,
quella Prinçesa che si fa forte
anche di un arrangiamento “brasilianeggiante” veramente strepitoso. Subito
dopo, in seconda traccia (anche se, curiosamente, l’ordine dei brani
nell’edizione su vinile, e pure su musicassetta, è diverso rispetto a quello
del cd), arriva Khorakanè, dal
sottotitolo che vale più di mille spiegazioni, A forza di essere vento. Con la stessa sensibilità di cui sopra,
protagonisti di questo brano, dopo gli omosessuali in quanto tali emarginati,
sono i rom, un’altra minoranza discriminata in quanto tale. «Io non sono
razzista però gli zingari proprio non li sopporto», si sente talvolta dire da
persone sedicenti progressiste ma che invece cullano in sé la più viscida e infida
delle xenofobie: la nobiltà d’animo di De André in quanto poeta sta proprio nel
non avere niente da spartire con queste ipocrisie, nel rifuggire dalle
posizioni di comodo, dalle canzoni per questa o per quella minoranza ammantate
di buonismo utile per strappare qualche titolo di giornale o guadagnarsi
qualche intervista con una “provocazione” furbetta; la grandezza di De André
sta viceversa nella sincera adesione alle istanze di cui si fa portatore, ad un
autentico amore per gli emarginati che non è una vera e propria scelta quanto
un obbligo autoimpostogli dall’amore che prova per queste persone. “Ora andiamo spose bambine ché è venuto il
tempo di andare [...] anche oggi si va a caritare / e se questo vuol dire
rubare [...] lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di
vista di Dio”: non serve aggiungere altro.
Queste
anime salve sono quindi più che altro anime sole, sole e senza protezione,
siano esse alle prese con un’alluvione che le tiene distanti da un amore non
corrisposto (Dolcenera) o impegnate
nella più terribile della faide (Disamistade).
Stiamo parlando di un album veramente straordinario, che ci accompagna in una
galassia di umanità disperata ma orgogliosa, tra momenti di eterea melanconia (Ho visto Nina volare) ed esplosioni di
sonorità solari e quasi tribali (Le
acciughe fanno il pallone). Nove tracce, nove capolavori, con un culmine se
possibile ancora più prominente, l’acme al quale convoglia e detona tutto il
disco, la canzone finale, Smisurata
preghiera. È l’ultima canzone che ci ha lasciato De André, una sorta di
testamento: non è stata una cosa voluta, perché De André è morto purtroppo
giovane e aveva il progetto di regalarci altre canzoni che purtroppo la morte
gli ha impedito di realizzare, ma Smisurata
preghiera si presta veramente bene a rappresentare il lascito straordinario
di un canzoniere irripetibile. Smisurata preghiera è un’invocazione a una non
meglio definita entità sovrannaturale, o comunque in qualche modo
“sovra-potente”, affinché finalmente, almeno una volta, butti un occhio sulle
minoranze che soffrono – gli umili e gli straccioni, come erano detti in Via della croce, nell’album La buona novella – e si prenda cura di
loro, trovando per costoro un destino diverso da quello che è loro
irrimediabilmente riservato. Sorretta da un arrangiamento potente e
tambureggiante che sfocia in un crepuscolare finale d’orchestra, che sfuma in
un’aria nebbiosa e incerta, questa Smisurata preghiera è il miglior finale
all’album – e forse alla carriera – che si potesse trovare. Le parole finali
meritano di essere riportate così come sono, senza altri commenti: “Ricorda signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco / non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare /
è appena giusto che la fortuna li aiuti come una svista, come un’anomalia, come
una distrazione, come un dovere”.
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