Raymond
Queneau, Zazie nel metró, Einaudi, Torino, 1994, pagg. 188
Titolo originale: Zazie
dans le métro
Anno di prima pubblicazione: 1959
Traduzione di Franco Fortini
Voto: 9
Non
spetta certo a me il compito di “scoprire” Raymond Queneau, uno degli scrittori
più geniali e inventivi del Novecento, acclamato nella sua Francia ma anche
all’estero come una delle voci più interessanti e creative della letteratura
contemporanea. In tutto questo levarsi di osanna e plausi, va detto però che
spesso Queneau è stato apprezzato molto più dai critici e dai colleghi (Calvino
per citarne uno su tutti), insomma dagli addetti ai lavori, che non dal grande
pubblico, che non gli ha fatto scalare spesso le classifiche di vendita. In tal
senso, Zazie nel metró, pubblicato
per la prima volta nel 1959, rappresenta però una piacevole eccezione perché,
oltre ad essere stato amato dai “professionisti della letteratura”, è stato
anche un successo editoriale, forse l’unico vero bestseller dello scrittore di
Le Havre. Senza voler apparire snob, si può sostenere che a favore di questo
romanzo, che forse non è nemmeno il migliore dell’Autore (I fiori blu regge il confronto, e magari è pure migliore), giochi
la sua semplicità narrativa. O è forse meglio dire la sua apparente semplicità narrativa? La questione è aperta. Come spiega
l’iper-accademico, ma assai interessante, saggio di Roland Barthes accluso in
calce all’edizione di riferimento, la critica nei confronti di quest’opera si è
divisa: a chi sostiene che si tratti di un romanzo
in codice, in cui agli elementi del racconto vanno sostituiti altri
referenti in un alfabeto semiologico noto solo all’Autore (qualcosa di simile,
anche se non proprio esattamente così, avviene proprio in I fiori blu), si oppone chi sostiene che il romanzo non parli di nulla, che nient’altro sia
se non la storia di sconcertante semplicità che vi è narrata. Convincentemente,
Barthes ritiene che la via giusta stia nel mezzo, la letteratura di Queneau
insomma è “il modo stesso
dell’impossibile, perché essa sola può dire il proprio vuoto, e dicendolo fonda
di nuovo una pienezza” (pag. 155).
Il
“segreto” di Zazie, allora, sta forse
qua, ed è quasi alchemico, situandosi nella sfida tra il pieno e il vuoto, tra
racconto e non racconto, una tensione in definitiva strenua ma giocosa che
innerva le pagine di questo romanzo stravagante e divertente ma anche
disorientante. Ho usato l’aggettivo “giocoso”: Zazie è una bambina, piccola ma
sboccata come un adulto, che in una visita di un paio di giorni a Parigi vive
un caleidoscopio di avventure rocambolesche incontrando una galleria variopinta
di personaggi improbabile, in una vicenda che si fa e si rifà, che sfugge e si
rinnova, che cambia continuamente di baricentro. Ed il tutto è temprato
ovviamente dalla maestria stilistica di Queneau, uno degli autori di più
difficile traduzione proprio a causa dell’esplosiva inventiva, della
straordinaria capacità di giocare con la lingua, di assemblare un linguaggio
nuovo tanto dal punto di vista lessicale quanto da quello narratologico, con
una lunga serie di incursioni parodistiche, facete ma inappuntabili, e comunque
mai sbrindellate, nei generi più disparati. Una giostra di colori come quelle
di Montmartre, una Parigi rutilante, in un romanzo paradossale, divertente e
serio, che forse vuol dire tutto, forse non vuol dire proprio nulla...
Gli
affibbiò un energico pizzicotto. Gabriel schizzò su gridando «uài». È chiaro
che avrebbe potuto affibbiarle una sberla da farle saltare due o tre denti, a
quella mocciosa: ma cosa avrebbero detto i suoi ammiratori? Meglio uscir dal
loro campo visivo piuttosto che lasciarli con l’immagine pustolosa e indecente
d’un carnefice di minorenni. Siccome s’era prodotto un notevole ingorgo nella
circolazione, Gabriel, seguito da Zazie, scese tranquillamente, facendo astuti
segni di connivenza ai viaggiatori sconcertati, ipocrita trucco destinato ad
ingannarli. Effettivamente, i suddetti viaggiatori ripartiranno prima d’aver potuto
prendere adeguate misure. Quanto a Fiodor Balanovic, l’andare e venire di
Gabriella lo lasciava affatto indifferente e si preoccupava soltanto di portare
le sue pecorelle nel luogo voluto prima dell’ora in cui i custodi dei musei
vanno all’abbeverata, irreparabile essendo altrimenti una simile falla perché l’indomani
i viaggiatori sarebbero ripartiti per Gibilterra aux anciens parapets. Ché tale era di costoro l’itinerario.
(p. 74)
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