Cristiano De André, Come in cielo così in guerra (2013)
Tracklist:
1. Non è una favola – 2. Disegni nel vento – 3. Credici – 4. Il mio esser buono
– 5. Il vento soffierà – 6. Ingenuo e romantico – 7. Sangue del mio sangue – 8.
Vivere – 9. La stanchezza – 10. La bambola della discarica
Voto:
9
Se
parliamo di un bravo cantautore italiano più o meno giovane, quasi mai diciamo:
«È bravo ma non quanto Fabrizio De André». In realtà, il confronto con Fabrizio
De André, si converrà, è penalizzante un po’ per tutti i cantautori italiani (e
non solo), e, se dovessimo decidere di ascoltare solo artisti della grandezza
di Faber, alla fine dovremmo ridurci a non ascoltare praticamente niente.
Eppure per Cristiano De André, in virtù del pesante cognome che ha sulla carta
di identità, questo discorso non vale: quando si parla di Cristiano, il
confronto con il padre Fabrizio è quasi inevitabile. E così, nell’Italia
nepotista dove spesso impresentabili figli vengono piazzati in posti di potere
e responsabilità non per merito ma per cognome, il povero Cristiano è uno dei
pochi figli d’arte che in virtù del padre – non certo per scelta di Fabrizio! –
non ha ottenuto porte aperte e corsie preferenziali, bensì un’ombra
penalizzante, un’insostenibile pietra di paragone che ne ha spesso reso più
difficile la carriera: «È bravo ma Fabrizio era un’altra cosa»...
Il
confronto tra Cristiano e Fabrizio in realtà non andrebbe fatto, se non altro
perché la formazione e lo stile sono molto diversi, anche se ovviamente
Cristiano qualcosa dal padre lo ha preso (e del resto, quale cantautore
italiano può dire non essersi mai ispirato neppure una volta a qualcosa di
Fabrizio?) Fabrizio e Cristiano hanno “padri putativi” diversi: se il primo
guardava agli chansonnier francesi alla Brassens o ai “menestrelli” americani
alla Cohen e alla Dylan, Cristiano ha riferimenti molto più recenti, da Bruce
Springsteen ai Coldplay. Quindi, il confronto tra padre e figlio andrebbe
evitato, limitandoci a ricordare come Cristiano abbia un talento sconfinato e
un repertorio meraviglioso, sebbene limitato dal fatto che le sue uscite
discografiche (come e più di quelle del padre) sono sempre molto diradate nel
tempo.
È
quindi per me un piacere poter recensire questa ultimissima fatica di Cristiano
De André, che porta in copertina un titolo che è tutto un programma: Come in cielo così in guerra. Un giorno nuovo, l’ultimo album di
inediti (anzi, con un inedito solo, la canzone eponima), era datato 2003, sono
quindi passati dieci anni tondi tondi, in campo discografico un’era geologica:
Cristiano in questo tempo non è però certo rimasto con le mani in mano,
dedicandosi all’acclamato tour De André
canta De André (pubblicato in due volumi di grande successo) nel quale
aveva presentato le canzoni del padre arrangiate in una veste più affine ai
suoi gusti musicali, in un modo per omaggiare affettuosamente Fabrizio ma anche
rimarcare la propria identità e il proprio talento (superando a pieni voti la
prova, tanto che alcune sue versioni a me son sembrate pure meglio degli
originali, come nel caso della stupefacente Se
ti tagliassero a pezzetti). Nonostante il grande successo di quella operazione,
credo sia stato giusto, senza rinnegarla né abbandonarla del tutto (nei concerti di
Cristiano qualche pezzo di Fabrizio credo che ci scapperà sempre, com’è giusto
che sia!), che Cristiano scegliesse di tornare al proprio mestiere di cantautore. E
lo fa con questo disco, che vede la collaborazione anche di uno degli artefici
della riuscita di quel tour (di cui fu produttore e tastierista), Luciano
Luisi, che è rimasto nel team di Cristiano, dedicandosi con lui ed altri alla
stesura dei pezzi (non è accreditato nella cosiddetta “preproduzione” ma vien
da pensare che in qualche modo abbia detto anche lui la sua). La produzione di
questo disco è invece affidata ad un vecchio conoscente dello stesso Luisi, e
cioè un veterano come Corrado Rustici, un pezzo da novanta che in curriculum
vanta numerose collaborazioni prestigiose (come quelle con lo Zucchero degli
anni d’oro) tra cui la produzione di Arrivederci,
mostro!, l’album della “resurrezione” di Ligabue dopo alcuni lavori non
molto convincenti del rocker di Correggio.
Insomma,
la squadra che ha lavorato con Cristiano a questo Come in cielo così in guerra è di primissimo piano, e questa è
un’ottima partenza (il talento di un musicista sta anche nello scegliersi
collaboratori di alto profilo, ed in questo anche Fabrizio era un maestro). Il
resto ce lo mette Cristiano, che pare in grande spolvero ma anche, al tempo
stesso, profondamente inquieto. Il titolo “da battaglia” dello stesso album fa
del resto intuire lo spirito di Cristiano: se la situazione personale
dell’Autore traspare da questi brani come poco serena, al tempo stesso la
situazione generale – della nostra nazione, del nostro mondo – non è migliore,
ed anzi, nella sua complessiva decadenza, è essa stessa motivo di turbamento.
Siamo in guerra contro qualcosa che sta demolendo le nostre vite, il nostro
stare insieme, il nostro tempo, e più che la crisi economica è il decadimento
etico. E Non è una favola, proclama
l’accattivante pezzo d’apertura (nonché primo singolo): sembra tutto troppo
brutto per essere vero, eppure è con questo che dobbiamo confrontarci.
Disegni nel vento, il secondo brano,
si apre verso tessuti melodici più armonici, in un accorato lirismo che
richiama i tempi più sereni del primo Cristiano (alcuni passaggi ricordano i
brani di Canzoni con il naso lungo,
il disco del 1992 che forse è quello più “luminoso” della sua intera
discografia, mi torna in mente soprattutto L’amore
che tornerà) ma al tempo stesso non nasconde una vela di inquietudine.
L’inquietudine
si fa rabbia, se non addirittura ira furibonda, nel pezzo più forte e indignato
del disco, Credici (che sta a
Cristiano un po’ come La domenica delle
salme sta a Fabrizio, o come Povera
patria sta a Battiato, tanto per rendere l’idea), una sferzante denuncia
che punta il dito contro i colpevoli della crisi che stiamo vivendo. E non è un
pezzo elusivo o metaforico, bensì è molto diretto nell’additare ai politici – e
più latamente a chi ha il potere – la responsabilità del nostro declino: “Chi ha creduto alle menzogne [...] alle
parole di un potere [...] che in trent’anni di sottocultura mediatica tra
canali e canili / a quelle lingue golose dei mercati / che per i loro tacchi
rialzati / hanno svenduto il paese al peggiore dei medioevi”. Non accuse
vaghe insomma, ma un’invettiva con tutti i crismi: “ecco l’esercito dei salvatori, escono dalle banche e entrano nei
ministeri”. E ancora: “I nuovi capi
sembrano tutti Al Capone [...] il rosso è così meno rosso e il nero è sempre
più nero”. Senza tralasciare l’apostrofe al Vaticano: “tu cara madre chiesa / ormai da tutti la più incinta / tu che con la
Cei, lo Ior, l’Opus Dei / ci mostri come sei”. Una (condivisibile)
filippica in piena regola, uno schizzo di furore che imprime il segno ad un
disco comunque molto irrequieto.
Del
resto, manca una vera e propria “luce” di salvezza in questo disco, si apre
solo qua e là qualche spiraglio di speranza, legato però più alla possibilità
personale di ritagliarsi un’oasi oraziana di serenità con le persone amate
piuttosto che alla prospettiva di una redenzione “globale” di un’umanità che
corre a grandi passi verso il baratro: Ingenuo
e romantico (l’amore, anche carnale, come consolazione, anche spirituale, e
istante montaliano di “varco”), Sangue
del mio sangue (“Noi restiamo noi”: il fuoco da tramandare resiste anche
nelle avversità più manifeste) e Vivere
(la consapevolezza di “essere demoni e angeli” è comunque una piccola
consolazione) vanno in questa direzione, anche se con qualche accento di
cupezza che non fa mai spalancare le ali di una vera e propria “resurrezione”. La stanchezza e La bambola della discarica, che chiudono in un trionfo di
pessimismo quasi nichilista il disco (l’ultimo brano è recitato, come se non ci
fosse nemmeno più spazio per la gioia del canto, mentre l’accompagnamento
orchestrale sembra la colonna sonora del finale di un film apocalittico),
chiudono del resto le porte ad ogni speranza.
Si
tratta insomma di un disco molto “plumbeo” ma bellissimo, scritto molto bene e
prodotto altrettanto bene, forte di un’accuratezza molto apprezzabile dei testi
e di una composizione ben riuscita, e spesso assai orecchiabile, delle musiche.
Curiosa, e significativa, la scelta di proporre anche Il vento soffierà, cover (in realtà meno convincente
dell’originale) di Le vent nous portera,
brano più famoso dei Noir Désir. I Noir Désir sono il gruppo francese di
Bertrand Cantat, artista tristemente famoso per avere ucciso nel 2003, nel
corso di una violentissima lite, la compagna Marie Trintignant. Scegliere di
interpretare questo brano non significa certo avallare l’indifendibile delitto
di Cantat, né solidarizzare con lui, significa solo apprezzare una canzone che
di certo brutta non è; è comunque interessante notare come Cristiano, in un
album così inquieto, abbia scelto di appropriarsi di un pezzo per così dire
“maledetto”, come se avesse voluto in qualche modo manifestare il suo sentirsi “controcorrente”,
inviso ad una società ostile. D’altra parte, i motivi per cui essere inquieti,
al giorno d’oggi, non mancano, e la chiave di lettura di Cristiano è
assolutamente interessante, comprensibile e per lo più condivisibile; eppure,
qualcosa di bello e buono al mondo c’è, e direi che il talento di Cristiano De
André ne fa parte a pieno merito.
splendida recensione, puntuale attenta ed innamorata...grazie
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