Peter
Cameron, Coral Glynn, Adelphi, Milano, 2012, pagg. 212
Titolo originale: Coral
Glynn
Anno di prima pubblicazione: 2012
Traduzione di Giuseppina Oneto
Voto: 8
Ci sono scrittori
che sembrano “ronzare” sempre attorno ad un solito archetipo narrativo, e che
sembra che scrivano sempre lo stesso romanzo, o comunque una variazione sul
tema di un prototipo iniziale, come se la loro intera produzione letteraria non
fosse che una sorta di labor limae
del loro romanzo ideale, rincorso per un’intera vita artistica. (E questa non è
per forza un’“accusa” o comunque una caratteristica negativa: una cosa simile,
tanto per fare un esempio, viene detta da taluni anche su Italo Svevo, che è
pur sempre uno degli letterati più importanti del Novecento). Altri scrittori
invece, concluso un romanzo, sembrano voler definitivamente chiudere i conti
con le atmosfere di quel lavoro e decidere, quando sono alle prese con il testo
successivo, di dedicarsi a tutt’altro – anche se ovviamente, scavando un po’
oltre la superficie della prima apparenza, richiami e rimandi al corpus
complessivo del repertorio si trovano quasi sempre. Nel secondo caso direi che
ricade Peter Cameron: l’autore di due romanzi molto belli – e già piuttosto
diversi tra di loro – come Quella sera dorata e Un giorno questo dolore ti sarà utile, torna in pista (il libro è stato pubblicato l’anno scorso, e l’edizione
Adelphi è uscita in contemporanea con l’originale americana) con Coral Glynn, che segna – almeno in
apparenza – una presa di distanza dai precedenti lavori.
Ci troviamo
infatti di fronte ad un Cameron molto “europeo”, non solo per l’ambientazione
inglese del romanzo, ma anche per un’atmosfera narrativa rarefatta che
abbandona l’acume graffiante che aveva permeato Un giorno questo dolore per abbracciare uno stile rigido e all’apparenza
freddo che ricorda più Moravia di Salinger. La vicenda di Coral Glynn, un’infermiera
a domicilio inglese degli anni ’50 che, rimasta senza parenti dopo la guerra,
finisce con lo sposarsi quasi a caso (e comunque per disperazione e non per
amore) e a subire i contraccolpi di questa scelta e di altri problemi che le si
parano attorno nel corso della vicenda, ha in effetti qualcosa di moraviano,
non solo dal punto di vista dell’intreccio (inusitatamente scarno, almeno per
un romanzo contemporaneo) ma anche dal punto di vista del taglio d’analisi dato
al racconto. La riflessione sociale, che in Cameron era stata più che altro l’indagine
psicologica del rapporto dell’individuo col mondo a prescindere dal censo, si
arricchisce qua di un elemento di riflessione sulla fascia economica in cui si
collocano i protagonisti. Il duplice effetto di straniamento dato dalla
collocazione sia spaziale che cronologica della vicenda contribuisce per un
verso ad “allontanare” la storia dal lettore – in fin dei conti, negli anni ’50
la forza dei pregiudizi e delle convinzioni sociali era pure più pressante di
oggi – ma per un verso finisce col porre la condizione di Coral Glynn come uno specimen contestuale di una vicenda che
al contrario aspira all’assoluto umano.
Ed è
probabilmente a questo livello di analisi che più si vede la mano del Cameron
dei lavori precedenti, nel suo modo di pungere a livello “sentimentale”: in
tutto il romanzo si parla d’amore, ma l’amore – il vero amore – è in realtà il
grande assente dalla scena, non c’è quasi mai. Se c’è, è frustrato, ostacolato
da qualcos’altro. I rapporti interpersonali sono per il resto asettici e
convenzionali, invischiati nelle maglie delle “regole civili” che imbrigliano
anche i sentimenti che sarebbero più candidi.
Il finale
lascia però aperta una porta. Tutto sommato, è un lieto fine: le cose vanno più
o meno a posto. Ma vanno a posto nel modo giusto o vanno a posto perché non c’era
altro da fare che farle andare a posto, volenti o nolenti, a prescindere da
tutto il resto? È un finale veramente ottimista, o semplicemente una palliativa
consolazione che fa le veci di una soluzione altrimenti impossibile? Al lettore
la scelta, che forse non è nemmeno così difficile da raggiungere: sta qua il
nodo centrale di un libro non sempre trascinante (anche se non mancano le parti
assolutamente ben riuscite) ma comunque interessante.
Esiste mai
la possibilità di sapere davvero chi sono gli altri? Sono tutti come le monete:
hanno due facce; se non come i dadi, che ne hanno sei.
(pag. 146)
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