venerdì 5 aprile 2013

Ingvar Ambjørsen - Storia di Elling


Ingvar Ambjørsen, Storia di Elling, Pisani, Isola del Liri, 2007, pagg. 225
Titolo originale: Fugledansen
Anno di prima pubblicazione: 1995
Traduzione di Lucia Barni
Voto: 8,5



Abbiamo parlato qualche mese fa dell’interessante film norvegese Elling diretto da Petter Næss: vale la pena parlare anche dei romanzi di Ingvar Ambjørsen che hanno ispirato questo film. In realtà, Elling è tratto prevalentemente da Fratelli di sangue, il secondo romanzo della saga di Elling (che di tomi ne conta quattro, anche se in italiano, a quel che so, sono stati tradotti solo i primi due); il primo, cioè questo Storia di Elling di cui parliamo oggi (ma presto parleremo anche di Fratelli di sangue), non è entrato a far parte della trama del film se non per un paio di scene iniziali, ma non per questo merita di essere trascurato.

Storia di Elling, pubblicato in Norvegia nel 1995, è in buona sostanza l’antefatto della saga: tratta di Elling che, in seguito ad un crollo nervoso conseguente alla morte della madre cui era legato da un rapporto tanto affettuoso da essere ai limiti del morboso, viene ricoverato (viene fatto ricoverare obtorto collo, per essere più precisi) in una clinica psichiatrica, dove alloggia con l’enorme Kjell Bjarne di cui, nonostante una pronunciata diffidenza iniziale, diventerà grande amico (ma il ruolo di Kjell Bjarne in questo romanzo è ancora piuttosto marginale). La parte più cospicua del romanzo è però quella centrale, che è una lunga digressione (un flashback o un’analessi, direbbero gli esperti) che racconta una vacanza di Elling con la madre, fatta nella località spagnola di Benidorm poco prima che lei morisse. È un episodio di pochi giorni, apparentemente secondario (solo apparentemente), che però viene raccontato con molta acribia perché, pur nel suo piccolo, ha fondamentale importanza per capire Elling e la sua vicenda: in questa vacanza praticamente niente va per il verso giusto...

Sia nei capitoli ambientati nella critica che in quegli spagnoli, rifulge il particolarissimo modo di raccontare di Ambjørsen, una sorta di flusso di coscienza molto rigoroso e controllato – assai lontano dagli sperimentalismi joyciani, per intendersi: Ambjørsen non ha alcuna velleità di rottura formale, la sua attenzione è tutta sul piano dei contenuti – in grado di fare entrare il lettore con immediatezza dentro i pensieri di Elling.

Solo che entrare dentro i pensieri di Elling è un’esperienza tutt’altro che banale: dire che Elling è “matto” è sicuramente un eccesso, tuttavia è chiaro che Elling ha grossi problemi psicologici se non psichiatrici, non così grossi da essere insormontabili, ma così importanti da richiedere l’intervento degli specialisti della clinica in cui viene ricoverato. E l’Autore, con una sensibilità tipicamente scandinava e molto norvegese (i punti di contatto di Ambjørsen col conterraneo Erlend Loe sono molteplici; Loe è di una decina di anni più giovane ma il suo libro più affine alla saga di Elling, Naif.Super è uscito nel 1996, solo un anno dopo il romanzo di cui stiamo parlando oggi), riesce a trasmettere al lettore tutto il disagio di Elling senza perbenismi né reticenze, anzi in modo diretto e schietto, ma anche con grande sensibilità e delicatezza. Se si ride in questo romanzo, e si ride (anche), non si ride di Elling, ma con Elling. Non c’è mai derisione, anzi il modo di Ambjørsen nel trattare la materia fa sì che i problemi di Elling vengano fuori per quello che sono: non la pazzia di una mente malata in modo irrecuperabile, bensì problemi comuni con cui tutti abbiamo a che fare, nessuno escluso. Le debolezze di Elling sono comuni: in lui sono esasperate e lui a un certo punto non ha più la forza per farvi fronte, però sono comuni.

Ecco il vero punto di forza di questo romanzo: se talvolta leggendo un libro si ha l’impressione che sia il libro a leggere il lettore, a raccontarlo a lui stesso come se fosse uno specchio di carta, Storia di Elling fa di questa caratteristica la sua straordinaria forza: Elling – col suo rapporto intenso con la madre, con il suo disagio verso gli altri, le sue difficoltà con le donne, i suoi sogni così vivi e così irrealizzabili, i suoi eccessi e i suoi crolli – è un po’ in tutti noi. Il male di vivere non come vicolo cieco dell’esistenza, ma condizione umana contro cui fare fronte comune.

Ambjørsen è anche magistrale nel rappresentare le “alienazioni” di Elling, quel processo per cui il personaggio parte da uno spunto di realtà per costruirci sopra una realtà alternativa tutta sua, che talvolta è migliore (come i sogni amorosi) e talvolta è peggiore (come le paure di essere aggredito), ma è comunque più controllabile perché meglio conoscibile, più semplice da affrontare perché vincolata dai parametri logici che lo stesso Elling le impone creandola. La realtà però è un rompicapo ben più insolubile, ed è con essa che Elling deve fare i conti per non uscirne annientato, come a un certo punto sembra inevitabile che avvenga. Ma si può venire a capo di tutto, accettando se stessi per come si è ma al tempo stesso lavorando su se stessi per armonizzare il rapporto con gli altri, affinché tra l’io e il resto non si formi un muro. Perché i problemi psicologici esistono, ma si possono – si devono – anche risolvere.

Storia di Elling non sarà una pietra miliare della letteratura contemporanea ma in patria ha goduto di un ottimo, e meritato, successo proprio per la capacità di unire leggerezza e profondità nel trattare un tema così importante e delicato. Bisogna ringraziare quindi la Pisani, una piccola casa editrice del frusinate che col suo lavoro ha reso disponibile in Italia questo interessante romanzo. Si merita un plauso: l’edizione ha qualche piccola sbavatura, ma non importa, pubblicare questo romanzo è un’opera così meritoria che si può certo perdonare qualche isolata trascuratezza.

Quando io e mamma ci avvicinammo, una persona si separò dalla massa per venire verso di noi con il sorriso più ampio che avessi visto quel mattino. Una donna molto abbondante, per utilizzare un’espressione un po’ cauta. Radiosa di gioia, ci raccontò di essere la nostra accompagnatrice e di chiamarsi Grete Iversen. C’era entusiasmo in tutto ciò che diceva e faceva. un entusiasmo che mi rese profondamente scettico nei confronti sia di quella donna che di quello che eventualmente si poteva pensare che rappresentasse. Quando delle persone che non hai mai visto, di cui non hai mai sentito parlare, si comportano come se avessero pazientemente aspettato te e tua mamma fuori dalla stazione di Oslo per una vita intera, da qualche parte si accende una lucina rossa. Almeno per me. Il falso interesse di Grete Iversen per me e mamma, già, tutta la sua grassa immagine, mi ripugnava nel profondo, inoltre c’erano peli di cane sul suo poncho rosso. Se la mia supposizione non era molto sbagliata, gestiva un allevamento di pastori tedeschi da qualche parte nella zona di Hobøl, oltre all’attività di accompagnatrice turistica. Insieme a suo marito. O compagno – doveva essere più nel suo stile. Si chiamava Frank, mi immaginai, un cane magro e foruncoloso che si inseriva naturalmente tra gli altri nel recinto. Cosa ci vedeva in Grete Iversen, quel budino ridente? E cosa ci vedeva lei in Frank Hansen? Un imbecille d’un uomo, un garzone di fattoria non pagato che spalava escrementi di cane giorno dopo giorno per tutto l’anno, un uomo adulto che in volto mostrava tutta la sua pubertà. La loro convivenza contemplava anche la sessualità? Non riuscivo a concepire come qualcuno dei due ne avesse il coraggio.
(pagg. 100-1)

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