David Foster
Wallace, La scopa del sistema, Einaudi, Torino, 2008, pagg. 553
Titolo
originale: The Broom of the System
Anno di prima pubblicazione: 1987
Traduzione di Sergio Claudio Perroni
Voto: 9,5
Tenetevi
forte: il genio di David Foster Wallace – uno degli autori più interessanti
della nouvelle vague narrativa
americana, purtroppo suicidatosi nel 2008 a poco più di quarantacinque anni –
non lascia scampo! Scrivere un romanzo così è una follia: 550 pagine che
mettono letteralmente sotto pressione il lettore, bombardandolo di personaggi,
ragionamenti, racconti, racconti nei racconti, dialoghi, monologhi, salti e
avvitamenti. Lo sforzo che il lettore deve fare nel costruire e ricostruire il
racconto, che l’Autore come Penelope gli fa e disfà davanti agli occhi, è
davvero notevole. DFW (come lo chiamano i suoi ammiratori) racconta tutto –
realizzando quasi l’utopia di Borges del racconto “universalizzante” – ma riesce
a tenere fuori il centro dell’azione, è cioè ridondante nel contesto (e
contesto è parola centrale del romanzo) e sfumato al centro, è fluviale ed
ellittico allo stesso tempo (tant’è che la protagonista, l’arzilla vecchietta
Lenore, è solo evocata dagli altri personaggi senza comparire mai in prima
persona sulla scena, dove è “rappresentata” dall’omonima bisnipote). E non è
tutto: DFW è oltretutto maestro di sperimentalismo anche formale, per cui in La scopa del sistema troviamo capitoli
in terza persona, capitoli in prima persona, capitoli di soli dialoghi (lunghe
parti del meraviglioso nono capitolo sono occupate dalle ridondanti parole di
un solo personaggio, il prepotente padre di Lenore junior: quale modo migliore
c’è per rappresentare una persona che non sa ascoltare gli altri?), lettere,
documenti, trascrizioni di sedute psicanalitiche, insomma c’è di tutto, e ad
ogni “ambiente” l’Autore sa adattare il registro con maestria da padre della
letteratura. Ed ecco qua la vera forza di DFW (che ha pubblicato questo romanzo
a soli 25 anni!): pur tessendo un romanzo dalla complessità pazzesca (e col
finale sospeso dopo 550 pagine!), è in grado di avvincere il lettore,
avvinghiarlo a questo testo forte e misterioso grazie ad una scrittura
superlativa, in grado come detto di variare e modulare, ma soprattutto di
giocare con la lingua. La parola come sfida giocosa, il racconto come chiave
per svelare il mondo. O, almeno, svelarne la follia, dato che nel romanzo
vediamo scorrere un’America impazzita dai personaggi svitati e caratteristici
come quelli dei vecchi poemi cavallereschi, ma addirittura più stralunati, come
la battagliera nonnina a sangue freddo (letteralmente a sangue freddo...) di stretta osservanza wittgensteiniana, il
pappagallo che fa comizi religiosi in TV senza però risparmiarsi qualche
sconcia oscenità, il magnate che si vuole pappare l’intero universo (altro che
Borges, appunto!), e via dicendo, fino alla splendida Lenore junior, cardine
del romanzo, un personaggio a tutto tondo di cui non ci si può non innamorare
sin dal primo, splendido, capitolo.
Fornire un’interpretazione
di un siffatto romanzo è impresa non avulsa da rischi e che richiederebbe molte
pagine: l’edizione Einaudi di riferimento – oltre ad essere tradotta in modo
pressoché magistrale (e non deve essere stato facile per il traduttore Sergio
Claudio Perroni portare a termine una simile impresa) – è dotata di un’ottima
introduzione di Stefano Bartezzaghi che raccomando di leggere (però a fine
romanzo, perché letta prima rovina la sorpresa: è, come spesso purtroppo
accade, un’introduzione che sarebbe dovuta essere piuttosto una postfazione) e
che mi sembra condivisibile. Proporre infatti, come fa Bartezzaghi, una chiave
logica (nel senso tecnicamente filosofico del termine) per leggere il romanzo mi sembra
azzeccato, oltre che suggerito in molteplici punti dal testo stesso (a partire
dal pallino che nonna Lenore ha per Wittgenstein e per gli indovinelli paradossali). Non
serve dire altro, a parte ricordare che un’immagine fondamentale del romanzo è quella
del barbiere del villaggio che fa la barba a tutti quelli che la barba non se
la fanno da sé, e a cui scoppia la testa perché non sa capire se se la deve
fare da sé oppure no (in entrambi i casi, è un paradosso logico). E anche a noi
lettori di La scopa del sistema non può che scoppiare la testa, non solo perché
DFW ci regala una storia complessa come un paradosso, ma anche perché questo
romanzo è – nel senso positivo del termine – una vera e propria cannonata!
- Stasera
come state a bistecche?
- Bistecche,
signore? Stasera le nostre bistecche sono semplicemente superbe, se mi è
consentito dirlo. Esclusivamente eccellenti tagli di manzo, accuratamente
selezionati e ancor di più accoratamente frollati, cotti alla perfezione in
base al livello di cottura da lei indicato, signore, e serviti con la sua
scelta di patate e verdure.
- Da come le
descrivi si direbbero succulente.
- Lo sono,
signore.
- Portamene
nove.
- Mi scusi?
- Portami
nove bistecche, per favore.
- Vuole nove
bistecche tutte in una volta?
- Per
favore.
- E chi, se
posso permettermi, si occuperà di consumarle, signore?
- Vedi
qualcun altro seduto qui al mio tavolo? Sarò io ad occuparmi di consumarle.
- E come mai
potrà riuscirci, signore?
(pag. 98)
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