Antonio
Tabucchi, Piazza d’Italia, Feltrinelli, Milano, 1996, pagg. 150
Anno di prima pubblicazione: 1975
Voto: 9
Tabucchi
ci ha lasciati domenica scorsa, ed è stata una notizia molto triste, perché
perdiamo non solo uno scrittore sopraffino, uno dei pochi artisti italiani di
respiro veramente internazionale, ma anche un intellettuale nel senso nobile
del termine, un pensatore libero, schivo alle luci della ribalta ma mai
indeciso nel dire la sua, sempre pronto a manifestare la propria opinione senza
la paura di urtare i potenti. In effetti, non solo la narrativa ma anche il
ricco repertorio di articoli di Tabucchi meriterebbero analisi approfondite.
Nello spazio ridotto di questo blog, preferisco però omaggiare questo grande
artista recensendo non il suo libro migliore (io resto innamorato di Sostiene Pereira) ma uno dei suoi libri
più importanti, se non altro perché fu il primo, Piazza d’Italia, dato alle stampe la prima volta nel 1975.
Accennavo
al fatto che non è questo il libro di Tabucchi che preferisco. In effetti, mi
pare un’opera “giovanile” in cui, anche se non mancano i barlumi della futura
grandezza, manca un po’ di quella maturità che avrebbe reso possibili i
successivi capolavori (già Notturno
indiano, del 1984, è di livello decisamente più alto). In particolar modo,
quella che sarà in seguito una delle armi segrete del Tabucchi maturo, ossia la
capacità di fondere mirabilmente due elementi di per sé antitetici come un
lucido razionalismo e una visionarietà onirico, appare ancora un po’ in
rodaggio, e in questo romanzo la fusione a freddo dei due elementi riesce e non
riesce, suonando talvolta come un’indecisione irrisolta tra le due istanze.
Inoltre, la frammentarietà della storia, che pure non sarà assente dal Tabucchi
più adulto e darà luogo ad ottimi risultati, qua suona un po’ troppo marcata,
con qualche problema di interconnessione tra i vari capitoli. In generale, si
respira in qualche pagina un clima alla Cent’anni di solitudine che – come spesso accade nei romanzi in cui si respira il
clima alla Cent’anni di solitudine,
ma questa è essenzialmente colpa di Gabriel García Márquez, “reo” di avere
scritto un capolavoro inarrivabile – non eguaglia il livello del modello.
Detto
questo, va anche aggiunto che questo primo Tabucchi, seppur minore rispetto al
Tabucchi dei capolavori, è tutt’altro che da buttare, anzi il contrario. Siamo
in un borgo toscano tra le paludi e il mare (è solo un caso che Vecchiano, il
paese in cui Tabucchi è cresciuto, sia un borgo toscano tra le paludi e il
mare?) e attraverso la storia di una famiglia seguiamo la storia d’Italia da
Garibaldi al secondo dopoguerra. Nella statua della piazza centrale del paese,
Garibaldi dona l’Italia prima al Re, poi a Mussolini, poi alla Democrazia.
Eppure, sarà proprio di fronte alla democrazia che si consumerà l’ingiustizia
finale del romanzo. Perché la storia scorre, i tempi passano, ma non cambia
nulla, gli umili restano umili, i potenti restano potenti. Dicevamo che questo
primo Tabucchi ha già in sé le caratteristiche del Tabucchi posteriore, e tra
queste non manca certo l’impegno, la letteratura anche come messaggio civile. Piazza d’Italia anzi si colloca a pieno
titolo in un filone certo non secondario della nostra letteratura, da Manzoni
alla Morante passando per Tomasi di Lampedusa. Niente di nuovo, si dirà, ma
questi temi, se declinati abilmente, non sono mai banali. E Tabucchi è abile a declinarli
in modo non banale, nel suo già caratteristico stile che gli diventerà
consueto, una scrittura asciutta ma con guizzi (anche dialettali), un racconto
geometrico e a tratti ellittico ma tutt’altro che estraneo a lampi di fantasia e
a momenti di discreta ironia. “L’uguaglianza non si ottiene con le macchine
idrauliche”, è il vero messaggio del racconto, e detto così sembra uno scherzo.
Leggendo il libro, si capisce invece la profondità di un messaggio che non è
luddista, bensì centrato a riflettere sul fatto che l’evoluzione della specie
umana non si realizza mai veramente se non ottiene l’uguaglianza dei cittadini,
che dovrebbe esserne invece il vero scopo. Questa è la vera crescita dell’uomo.
L’Italia è passata dal Re alla Repubblica, dai carri a cavalli ai motori a
scoppio ma – ammonisce Tabucchi – passi concreti verso l’uguaglianza non ne
sono stati mai veramente fatti. E finché non se ne faranno, sarà sempre come
non aver mai iniziato nessuna crescita.
Non
c’è altro da dire: come romanzo d’esordio, davvero niente male. L’ho già detto:
Tabucchi avrebbe saputo anche fare meglio di questo suo primo lavoro. Ma questo
Piazza d’Italia bastava già per
capire la grandezza di quello che sarebbe diventato uno dei più importanti
scrittori italiani contemporanei.
Garibaldo
salì sul podio con la fisarmonica. Dapprincipio aveva il batticuore, ma poi si
sciolse, ritrovò se stesso e eseguì il repertorio con maestria. Chiuse con la
canzone che aveva preparato, una ballata in terzine di rime assonate, di stile
dantesco, in cui parlava di un inferno fatto con la benzina. Fu un successo
senza precedenti e molti piansero, andarono ad abbracciarlo. La voce
dell’altoparlante, quando le cose stavano per mettersi al brutto, cercò di
sdrammatizzare: “Questi tenebrosi momenti sono per fortuna passati. Ma essi
devono essere sempre presenti nella nostra memoria perché non ci dimentichiamo
mai cos’è stato il fascismo!” E si passò alla seconda parte della
manifestazione: la corsa nei sacchi.
(pag. 133)
Consigliabile a leggere!!
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