Oasis, (What’s The Story) Morning
Glory? (1995)
Tracklist:
1. Hello – 2. Roll With It – 3. Wonderwall – 4. Don’t Look Back In Anger – 5.
Hey Now! – 6. [...] – 7. Some Might Say – 8. Cast No Shadow – 9. She’s Electric
– 10. Morning Glory – 11. [...] – 12. Champagne Supernova
Voto:
9,5
È
diffusa l’opinione che gli Oasis – i grandi
Oasis – siano stati un fuoco di paglia esauritosi nell’arco di un paio di
dischi, precisamente i primi due dischi, dopo i quali non c’è stato più niente
di veramente notevole. Mi sembra un giudizio eccessivamente severo: resto
dell’idea che fino a Heathen Chemistry
(passando per un lavoro davvero troppo sottovalutato come Standing On The Shoulder Of Giants, che ha qualche calo ma anche
alcuni grandissimi pezzi) la band dei fratelli Gallagher sia stata in grado di
produrre musica di ottima qualità, e che pure la carriera solista di Noel –
inaugurata dal progetto dal bislacco nome di Noel Gallagher’s High Flying Birds di cui si è già parlato – sia
iniziata sotto i migliori auspici. Tutto questo comunque non esclude che i
primi due album degli Oasis siano magnifici, e tra questi spicca soprattutto il
secondo, un disco che per qualità sembra un best of ma che invece è tutto di
inediti, ossia l’indimenticabile (What’s
The Story) Morning Glory?, pubblicato nell’ottobre del 1995.
Va
ricordato che la scena musicale inglese dei primi anni Novanta è stata segnata
dall’avvento del cosiddetto brit-pop, una sorta di recrudescenza beatlesiana
che è stata portata avanti quasi come una crociata soprattutto da due band per
certi versi molto affini – almeno all’epoca – ma pure parecchio ostili l’una
contro l’altra, ossia i Blur e proprio gli Oasis. Modern Life Is Rubbish, anno 1993, secondo lavoro dei Blur, dette
fuoco alle polveri, poi nel 1994 uscirono sia Parklife (Blur) che Definitely
Maybe (debutto degli Oasis), due manifesti assoluti del brit-pop che
incendiarono le classifiche di vendita britanniche (con risultati eclatanti
anche fuori confine) ed entusiasmarono gli ascoltatori di mezzo mondo, persuasi
che sulla scena musicale avessero fatto irruzione due band degne eredi dei
Beatles, gruppo che sia Blur che Oasis non han mai nascosto di considerare
padre putativo della loro musica. Fu forse breve fola, sia perché i Beatles,
almeno in àmbito pop, rimangono un gradino sopra tutti (anche a livello di
successo, basti pensare al seguito che ebbero negli Stati Uniti, dove i loro
epigoni fanno sempre una grandissima fatica ad affermarsi), sia perché vuoi i
Blur che gli Oasis finirono con lo smarcarsi presto dall’infatuazione brit-pop
(i primi uscirono nel 1997 con Blur,
l’album per intenderci con Song 2, che prendeva nettamente le distanze dalle
melodie “poppeggianti” per ammiccare addirittura all’indie, mentre i secondi,
pur restando più fedeli al verbo lennoniano-mccartneyano, verso fine millennio
scelsero di avvicinarsi ad uno stile maggiormente psichedelico). Ma fino al
1995-1996, fu pieno fasto brit-pop, e (What’s
The Story) Morning Glory? si colloca proprio all’apice di questa stagione,
suggello e pietra miliare di questa euforico capitolo di storia della musica
contemporanea.
Gli
Oasis, come detto, erano reduci dall’esordio col botto di Definitely Maybe, album robusto e irriverente che, dietro a pezzi
di pregevolissima fattura (da Rock’n’roll Star a Live Forever) rappresentava al
meglio la felice impertinenza della band dei Gallaghers. Adesso toccava loro
l’arduo compito della riconferma, visto che le aspettative per il loro secondo
lavoro erano altissime. E, prima dell’uscita di (What’s The Story) Morning Glory?, gli Oasis poterono permettersi
addirittura tre singoli anticipatori, che a conti fatti furono solo due perché
il primo di essi, Whatever (dicembre
1994), nonostante il grandissimo successo ottenuto (e nonostante sia un’ottima
canzone), venne escluso dall’album (gli Oasis erano così in stato di grazia che
potevano permettersi anche queste esclusioni: in quel periodo, come diceva
senza modestia Noel, un’altra band avrebbe fatto successo lanciando le canzoni
che gli Oasis relegavano al ruolo di b-side, come ad esempio Acquiesce e The Masterplan che, edite sui singoli proprio del 1995, gli stessi
Oasis avrebbero pubblicato come singoli molti anni più tardi, nel 2006). Ad
aprire le danze fu quindi Some Might Say,
un brano spiazzante, dalle atmosfere nostalgiche che poco hanno da spartire con
le smargiassate di Definitely Maybe. “Some might say they don’t believe in heaven
/ Go and tell it to the man who lives in hell”, declama la voce di Liam su
un testo di Noel (autore di tutte le canzoni degli Oasis fino a quel momento)
che pare aprirsi ad istanze socio-esistenzialiste quasi insospettabili, non
senza rinunciare tuttavia ad una sorta di giocoso surrealismo specialmente nel
ritornello (“The sink is full of fishes /
Cos she’s got dirty dishes on the brain”). Anche se lì per lì non venne del
tutto apprezzata (sebbene le vendite fossero state ottime), Some Might Say rappresenta uno degli
apici artistici degli Oasis, e la prima avvisaglia di una nuova apertura di
orizzonti.
Dell’altro
singolo, Roll With It, un rock
semplice e accattivante in cui la strofa funziona assai meglio del ritornello,
si ricorda soprattutto che fu preceduto da una puerile polemica contro i rivali
di sempre, proprio i Blur, polemica tanto sterile nei contenuti quanto
fruttuosa nelle vendite, visto che il singolo venne fatto uscire, all’acme
dello scontro triviale contro la band di Damon Albarn, proprio lo stesso giorno
– 14 agosto 1995 – in cui gli stessi Blur pubblicavano Country House (singolo che a sua volta precedette l’album The Great Escape). L’esito fu che
entrambi i singoli – non certo i migliori nelle produzioni dei rispettivi autori
– si giovarono di un incredibile boom di vendite...
“Cotto”
a puntino il pubblico, la cui attesa era ormai febbrile, gli Oasis poterono
distribuire finalmente questo (What’s The
Story) Morning Glory?, il cui ascolto non solo confermò che i Gallaghers ce
l’avevano fatta a bissare l’exploit di Definitely
Maybe, ma anche rivelò che avevano pure fatto meglio. Si parte con Hello, pezzo semplicissimo e di presa
immediata che nella sua apparente giocosità nasconde una vena di malinconia (“We live in the shadows and we had the chance
and threw it away [...] I’ve got a feeling you still owe me / So wipe the shit from
your shoes”),
in una “doppia anima” che (come nel ritornello di Some Might Say) sarà proprio la matrice più seducente del disco.
L’anima guascona comunque non viene meno, fa capolino qua e là e si prende la
scena alla grande nella già citata Roll
With It e nella grottesca She’s
Electric, storia di un ragazzo che conosce la bizzarra famiglia della
fidanzata e che si fa strane idee sulle donne di casa: il coretto finale
ricorda molto ma molto da vicino quello di With
A Little Help From My Friends dei Beatles. C’è però anche molto di più.
C’è
una vena malinconica che si manifesta in un mood
“da accendini” (quelli cioè accesi dal pubblico degli stadi durante i concerti)
nei due singoli più prorompenti del disco, due pietre miliari ancora oggi
famosissime che irrompono alle tracce 3 e 4. L’accordo di Fa# minore forse più
famoso della storia del rock apre Wonderwall,
una ballad d’amore che deve alla semplicità disarmante, ma anche all’impatto
immediato di una melodia che si attacca alla memoria sin dal primo ascolto, il
suo successo imperituro. C’è poi un pianoforte alla Imagine (più che alla Imagine,
potremmo dire che è un omaggio esplicito, l’equivalente musicale della
citazione tra virgolette) che apre l’unico pezzo del disco cantato da Noel,
quella Don’t Look Back In Anger che
è sin dalla sua uscita una sorta di instant-classic
della musica leggera, un accorato inno d’amore al tempo stesso solare e
malinconico che si è impresso indelebile nel cuore dei fan degli Oasis.
Hey Now! e soprattutto Cast No Shadow sono le canzoni più
“grigie” e riflessive dell’album, affini alla malinconia disarmata di Some Might Say: riflessioni crepuscolari
sulle debolezze personali, sull’impossibilità di imporsi o realizzarsi,
espresse icasticamente nell’immagine dell’uomo che non fa ombra di appunto Cast No Shadow (“Bound with all the weight of all the words he tried to say / Chained to
all the places that he never wished to say / Bound with all the weight of all
the words he tried to say / and as faced the sun he cast no shadow”)
Il
disco non cala neanche nel finale, che anzi raggiunge vette commendevoli. Morning Glory è un rock decisamente più
duro del consueto (e anche più spezzato dal punto di vista ritmico), un ritmo
trascinante che ha in sé qualcosa di ombroso (o addirittura apocalittico, come
suggerito dal rumore di elicotteri nell’apertura), preludio – dopo uno dei due
strumentali senza titolo dell’album – al nostalgico finale, che è una sorta di
riassunto emotivo del disco, Champagne
Supernova. La supernova di champagne è un’immagine che racchiude la triste
euforia del successo, un entusiasmo che si somma allo stress, alle pressioni,
agli eccessi (sappiamo bene che i Gallagher non sono mai stati, specialmente in
gioventù, estranei né ad alcool né alle droghe). Champagne Supernova, uno dei brani più lunghi della produzione
degli Oasis, è lisergica nel suo intro fluttuante (si apre col rumore di onde
ed una chitarra molto sognante), dolcemente amara nel testo ricco di nonsense
(“Slowly walking down the hall / Faster
than a cannon ball”) e di allusioni più o meno velate (“Where were you when we were getting high?”),
ed esplode anche musicalmente sul finale, a sintetizzare il meraviglioso
ossimoro del ritornello (“Some day you
will find me / Caught beneath the landslide / In a champagne supernova in the
sky”). «Far parte di un gruppo rock di successo», disse all’epoca Noel Gallagher,
«è fantastico sei giorni su sette: molte delle canzoni di questo album sono
state scritte il settimo giorno». Credo che questa dichiarazione spieghi non
solo il senso di Champagne Supernova ma dell’intero album, e che sia alla base
dell’alchimia segreta e misteriosa che ha fatto di questo lavoro uno dei
migliori dischi degli ultimi trent’anni.
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