venerdì 24 giugno 2011

Bruce Springsteen - Born to Run

Bruce Springsteen, Born to Run (1975)
Tracklist: 1. Thunder Road – 2. Tenth Avenue Freeze-Out – 3. Night – 4. Backstreets – 5. Born to Run – 6. She’s the One – 7. Meeting Across the River – 8. Jungleland.
Voto: 10


Si dice – l’ha raccontato Gino Castaldo su La Repubblica lunedì 20 giugno – che quando a Bruce Springsteen chiedevano del suo rapporto con Clarence Clemons, sassofonista della sua E-Street Band, egli rispondesse: «Andate a vedere la foto di copertina di Born to Run!» Come a dire: è tutto là, è tutto in quella foto, in cui si vede il giovane rocker ventiquattrenne, al terzo album dopo due lavori che – per quanto pregevoli – non avevano avuto gran successo, appoggiato sornione al suo collega ma soprattutto amico, il sassofonista granitico, il “Big Man”, il grande uomo, come lo stesso Springsteen lo aveva ribattezzato. E così lo aveva citato, proprio in una canzone di Born to Run, la celeberrima Tenth Avenue Freeze-Out che recita “When the change was made uptown and the Big Man joined the band”. Colleghi sin da quando avevano suonato insieme la prima volta – in un locale del New Jersey, dice la leggenda – quando ancora Springsteen non aveva inciso nessun disco, e insieme nella E-Street Band sin dall’inizio, sin da quando neanche si chiamava ancora così, in occasione del primo lavoro del Boss, Greetings from Asbury Park, N.J., datato 1973.

Il bianco Springsteen e il nero Clemons – ed anche il fatto che il connubio fosse interetnico, in un’epoca in cui queste cose non erano ancora frequenti come oggi, è significativo – e i loro compagni di avventura della E-Street, dicevamo, venivano da due album che all’epoca non erano apparsi memorabili per il pubblico (anche se in seguito, dopo i numerosi successi del Boss, li avrebbero scoperti in molti). Era giunta l’ora di fare qualcosa di meglio. Magari il miglior album rock di sempre, come nelle intenzioni di Springsteen. E Born to Run è proprio l’album della svolta, quello del successo definitivo, se non il miglior album di sempre, qualcosa che gli si avvicina molto. Solo 8 canzoni per 39 minuti di musica (di cui nove riservati alla mastodontica Jungleland), tutti – nessuno escluso, mi pare – destinati a restare vivi nella memoria dei fan (e ben presenti nei repertori live del Boss) fino ad oggi e chissà per quanto altro ancora.

La magia di Born to Run è quella di un album compatto, studiato e bilanciato alla perfezione. Trascinante sin dall’intro di piano e armonica della prima traccia, la mitica Thunder Road (l’assolo finale di Clemons è così notevole che si ha l'impressione che abbia ispirato Francesco De Gregori per la parte di slide guitar che chiude Un guanto, brano di Prendere e lasciare del  1996), musicalmente si dosano alla perfezione i brani più tirati (come Night e Backstreets) a quelli dall’atmosfera più soffusa (si pensi a Meeting Across the River e all’inizio di She’s the One); l’impasto sonoro della E-Street Band, sostenuto quasi sempre da sontuosi fiati (gli archi, che pure erano stati provati su più brani, sono rimasti solo su Jungleland per evitare che il loro uso eccessivo facesse perdere potenza allo stentoreo rock che domina l’album), è impeccabile. Per i testi, il Boss si affida, probabilmente per la prima volta con tanta assiduità, alla sua vena di narratore di un’America di periferia, dove il sogno americano è roba per chi è pronto a correre (o appunto nato per correre: “In the day we sweat it out in the streets of a runaway American dream / At night we ride through mansions of glory in suicide machines” sono i versi che aprono la stratosferica Born to Run), dove la gente che sta ai margini del mondo che conta sogna la fuga, in una lunga corsa che altro non è che l’incessante ricerca di un posto dove fermarsi stabilmente. L’attenzione per gli “ultimi”, o comunque per i non primi, deve avere affascinato per ovvie consonanze tematiche pure Fabrizio De André che, qualche anno dopo, in cerca di una cover da inserire nell’album Rimini, si racconta che fosse sedotto dall’idea di cimentarsi proprio con Born to Run (ma il Boss era troppo “metropolitano” e per così dire “autostradale” per uno come Faber, che poi scelse Avventura a Durango di Bob Dylan).

Born to Run è insomma la prima vera apoteosi di una carriera – quella del Boss con la sua E-Street Band – costellata di capolavori: seguiranno capitoli altrettanto indimenticabili come Darkness in the Edge of Town, The River, Born in the U.S.A. fino a The Rising. E, per quanto gli ultimi album siano un po’ più fiacchi e l’età cominci ad essere un po’ avanzata (ma neanche troppo per un eterno giovane come Bruce), non è da escludere che dal cilindro del Boss non esca anche in futuro qualche altro coniglio. Ma uno degli ingredienti che hanno reso possibile questo incantesimo, il sax di Clarence Clemons, non ci sarà più. Big Man è morto la settimana scorsa (il 19 giugno) a 69 anni. La E-Street Band sa sopravvivere ai suoi membri (già nel 2008 era scomparso il tastierista Danny Federici), ma l’assenza di Clemons si farà sentire senz’altro, sia per la sua bravura che per il suo carisma. Ricordare uno dei momenti più alti della sua splendida carriera era l’unico modo che avessi per mandargli un saluto: ciao, Big Man.

It’s a town full of losers
And I’m pulling out of there to win  
(da Thunder Road)

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