venerdì 1 luglio 2011

Cormac McCarthy - La strada

Cormac McCarthy, La strada, Einaudi, Torino, 2010, pagg. 218
Titolo originale: The Road
Anno di prima pubblicazione: 2006
Traduzione di Martina Testa
Voto: 9



Il veterano Cormac McCarthy (classe 1933), celebrato autore americano noto anche per Non è un paese per vecchi (donde il pluri-Oscar film dei fratelli Coen), con La strada – da cui John Hillcoat ha trasposto un omonimo film (il titolo in italiano non è stato tradotto ed è rimasto The Road) tra l’altro molto bello – ha avuto anche lo soddisfazione di aggiudicarsi il Pulitzer del 2007. Pulitzer più che meritato, direi. In uno stile asciutto (fatto tra l’altro di periodi molto brevi e discorso diretto libero, cioè riportato testuale ma senza virgolette) ma ricchissimo di dettagli (la capacità di McCarthy di presentare descrizioni brevissime ma complete andrebbe studiata nelle scuole di scrittura!), l’Autore ci guida lungo la strada che un uomo e suo figlio, diretti verso i climi più docili del sud, seguono in cerca di un’insperata salvezza. Dico che la salvezza è insperata perché la loro situazione è più che disperata: il romanzo è ambientato, per così dire, dopo la fine del mondo. Perché di questo si tratta: non sappiamo cosa sia successo – la focalizzazione interna (ma in terza persona) non consente al narratore di fornire in tal senso informazioni al lettore, e i personaggi sembrano non saperlo o comunque non volerne parlare – ma il dato inequivocabile è che il mondo è morto, livido, bruciato e freddo. In questo che potremmo pensare essere un inverno nucleare, solo poche forme di vita sopravvivono, e non sono rimasti che pochissimi uomini, senza più risorse né alimentari né tecnologiche, se non qualche residuo del mondo che fu: le città sono abbandonate da anni, il mare è un’immensa distesa di acqua sterile.

Dei pochi uomini rimasti, alcuni vagano raminghi e solitari come i due protagonisti, altri si sono organizzati in comuni più o meno civilizzate, altri si sono dati addirittura al cannibalismo. Già, perché con la morte del mondo è scomparsa anche ogni forma di stato: come anche in altri Autori (si pensi a Cecità di Saramago), nell’anarchia l’uomo torna un essere primitivo.

Ma allora, vista la lettura inequivocabilmente pessimista che McCarthy propone della natura umana, cosa resta ai due protagonisti?, il cui nome di battesimo tra l’altro non viene mai indicato (ed anche in questa assenza di nomi sta la disumanizzazione della condizione dell’uomo). Be’, resta innanzitutto l’amore reciproco. E resta anche, ricorsivo in tutto il testo, il senso del “fuoco da portare”, cioè di quel qualcosa di umano che c’è in noi – non solo l’amore, ma anche la conoscenza, il rispetto e tutto ciò che più in generale definisce il concetto di umanità – che va tramandato ostinatamente, ad ogni costo, di generazione in generazione. Questa sorta di darwinismo etico – sopravvivere affinché si possano conferire contenuti etici alla futura evoluzione umana – è la molla che spinge i protagonisti ad aggrapparsi cocciutamente all’esistenza.

Raccontata così, la tristissima novella di McCarthy pare quasi un conte philosophique alla maniera di quelli scritti dai pensatori illuministi (va citato allora almeno il Candido di Voltaire), racconti cioè in cui l’Autore si serviva della trama per propalare le proprie idee. In McCarthy però non è così, o almeno non è solamente così: in La strada si assiste anzitutto alla potente fantasia visionaria dell’Autore in piena azione, in grado di sorreggere una trama serrata in cui si incastonano episodi schiettamente d’avventura che non possono che eccitare il lettore. Con stentorea forza evocatrice, McCarthy dà vita al suo mondo morto, partendo dalla vicenda dei suoi personaggi per poi darle respiro universale, suggerendo riflessioni in merito a temi escatologici come il significato dell’esistenza, il rapporto tra gli uomini e, vivissimo in tutto in testo, un forte senso di morte. Sì, direi che è proprio la presenza della morte, con tutto lo spaventoso mistero che da essa emana, a pervadere queste pagine e a infondere nel lettore quella sorta di bella inquietudine che solo i romanzi ben scritti riescono a conferire.

Qualcosa lo svegliò. Si girò su un fianco e tese l’orecchio. Alzò lentamente la testa, con la pistola in mano. Abbassò gli occhi sul bambino e quando tornò a guardare verso la strada già si vedevano arrivare i primi. Oddio, mormorò. Allungò il braccio e scrollò il bambino senza distogliere gli occhi dalla strada. Avanzavano strusciando i piedi nella cenere e dondolando le teste incappucciate. Alcuni portavano maschere antigas. Uno aveva una tuta antiradiazioni. Macchiata e lurida. Camminavano ingobbiti con delle mazze in mano, dei pezzi di tubo. Tossivano. Poi su una strada dietro di loro si sentì il quello che sembrava un camioncino diesel. Presto, bisbigliò. Presto. Si infilò la pistola alla cintura, afferrò la mano del bambino e trascinò il carrello in mezzo agli alberi, lasciandolo coricato in un punto dove non era facile vederlo. Il bambino era impietrito dalla paura. Lo strinse a sé. Stai tranquillo, disse. Adesso dobbiamo scappare. Non ti voltare. Andiamo.
(pag. 47)

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